Fist of the North Star: Lost Paradise

Quella dei tie-in fra videogiochi e manga (ma anche fra videogiochi e opere cinematografiche, va detto) è una tradizione lunga e non sempre fruttuosa, che parte dall’epoca d’oro dei 16-bit e arriva a noi attraverso anni di cloni, prodotti a basso budget e titoli basati sul riciclo di asset e sul rigiocare con piacere saghe o scene iconiche ancora, e ancora, e ancora.

In questa tradizione e per quello che abbiamo potuto vedere, Fist of the North Star: Lost Paradise si presenta (potremmo dire purtroppo o per fortuna) come un prodotto abbastanza tiepido e nella media -basato su una interpretazione singolare del materiale originale e su alcuni accorgimenti tecnici e stilistici piuttosto formulaici. Meglio che i fan sfegatati e gli appassionati si mettano il cuore in pace fin da subito: Fist of the North Star: Lost Paradise è ben lontano dall’essere il Santo Graal di chi per anni ha aspettato un titolo all’altezza del manga di Tatsuo Hara e Buronson, e si presenta più come figlio della serie Yakuza che dell’opera originale -attingendo a piene mani dalla formula della fortunata serie dedicata alla malavita giapponese anche a costo di snaturare le atmosfere cupe ed esistenzialiste di Hokuto no Ken, ma non riuscendo tutta via a produrre un risultato altrettanto ricco di esperienze.

Ma procediamo per ordine: la storia, scritta appositamente per il gioco, è incentrata sul personaggio di Kenshiro e della sua ricerca della fidanzata Yuria -utilizzando come scenario la città di Eden (una sorta di Las Vegas post apocalittica, chiaramente ispirata ai vari quartieri tipici di Yakuza come Kamurocho) e i deserti circostanti, in cui non mancherà di vagare a bordo di jeep male attrezzate. Se storia e scenario cadono a pennello e sembrano rispettare in pieno le atmosfere e i temi della serie originale, molto del materiale contenuto in Fist of the North Star: Lost Paradise rappresenta del vero e proprio fanservice dedicato ai fan di lunga data, capace di stordire i neofiti con la miriade di personaggi introdotti senza troppe presentazioni o approfondimenti.

Sul piano del gameplay, ho già accennato al furbo “gioco di prestigio” effettuato da SEGA: lo scheletro della formula Yakuza (composto da combat system Tarantiniani, open world urbani, e minigame) con sopra imbastiti i materiali, le ambientazioni, e i feeling tipici della serie di Hokuto no Ken. Il risultato è sicuramente qualcosa di unico, difficile da valutare e probabilmente molto poco gradevole per chi non abbia familiarità con almeno uno dei titoli Yakuza. In Fist of the North Star: Lost Paradise, Ken vaga per le pericolose strade di una metropoli/baraccopoli alla ricerca della propria amata, capace di affrontare una imboscata di predoni tanto quanto di improvvisarsi cantante di karaoke o elegantissimo gestore di un ambiguo night club.

Il risultato finale di questa scelta, ad un primo impatto, potrebbe generare non pochi problemi sia ai fan di Hokuto no Ken (ora costretti a venire a patti con versioni inedite, quasi parodistiche, del proprio eroe) che agli appassionati della formula della serie principale -qui invece alle prese con uno spin-off poco dettagliato e approfondito.

Menzione particolare, sempre parlando di gameplay, meritano le sezioni open world fuori dalle porte di Eden -ovvero vaste distese desertiche attraversabili a bordo di fuoristrada, con tutta una iconografia a metà fra il Wasteland di Fallout e quello di Mad Max: Fury Road: spazi giganteschi e desolati di dubbia utilità, cosparsi da battaglie casuali e occasionali oggetti da recuperare. Per quanto la versione del gioco provata non sia quella definitiva, le sezioni open world ne rappresentano decisamente la parte più insoddisfacente, scadente anche dal punto di vista del comparto tecnico (con texture e modelli che sembrano in tutta onestà ricordare gli esperimenti di open world della prima era PS3)

Passando appunto al lato più tecnico del gioco, non si può che notare quello che probabilmente è il basso budget messo a disposizione degli sviluppatori. Ai fan di Yakuza toccherà ingoiare bocconi amari: per quanto Fist of the North Star: Lost Paradise tenti di costruire una propria identità visiva (anche grazie all’azzeccatissima scelta di utilizzare il cel-shading, forse l’unico punto di merito del comparto tecnico), nel paragone con titoli come The Song of Life sarà Ken ad uscire con le ossa rotte per quanto riguarda la ricchezza degli ambienti o i modelli, specialmente dei veicoli. L’impressione finale è purtroppo quella di trovarsi davanti ad una qualche remastered di un titolo di vecchia generazione, piuttosto che ad un gioco originale -peraltro crossover fra un anime e una delle serie più visivamente appaganti di sempre.

L’ispirazione a Yakuza, ormai assodata, traspare nel combat system di Fist of the North Star: Lost Paradise -trasportato di peso da Tokyo e calato nelle desolate distese postatomiche. A livello pratico non c’è nulla che differenzi le due versioni salvo un modesto sistema di talismani, equipaggiabili sulla croce direzionale e legati all’uso di attacchi combinati con i diversi personaggi della serie -una opzione interessante ma poco rilevante, dati i lunghissimi cooldown. Sebbene i combattimenti in sé siano semplici ed accessibili, gestiti attraverso una combinazione di combo, schivate, e parate direzionali, il potenziamento di Ken è gestito in maniera più approfondita (anche qui, chiaramente ispirata a Yakuza Kiwami) tramite il progresso attraverso quattro alberi di abilità diverse, legate a diversi aspetti del personaggio.