Shadow of the Colossus

di
C'era una volta (tra fiaba e videogioco)


Un videogioco probabilmente non sarà mai pura fiaba, perché molta di questa purezza la fiaba l'attinge dall'affinità con l'arte dell'inventare e quella dell'immaginare (le quali arti coinvolgono rispettivamente autore, se capace, e fruitore, qualora interessato). E però un videogioco può rilevarsi fiabesco (c'è differenza, eccome) nella misura in cui riesce a trarre dal genere narrativo in questione alcuni suoi rarissimi, ma basilari ingredienti. Prima di procedere con l'analisi di quest'ultimi va detto che gli esempi concreti di "videogiochi fiabeschi" non difettano certo per qualità dimostrata o fama raggiunta (basti citare The Legend of Zelda, Morrowind e rispettive serie). Benché i motivi che li accomunano al fiabesco siano sostanzialmente diversi (come diversi sono tra loro i due giochi di Ueda-san), lo stesso Ico, che di Shadow of The Colossus è appunto il precursore, fa parte di questa ristretta cerchia di eletti (laddove sono meno di quanto si possa credere e desiderare). Detto questo presentiamo la fonte da cui si è attinto per scovare questi fantomatici ingredienti la quale è, oltre che illustre, foriera di tantissimi spunti di riflessione sul tema; alludiamo ad "Albero e Foglia", nota opera di J.R.R. Tolkien, e specificatamente al saggio "On Fairy-Stories" (Sulle Fiabe).


Così Tolkien scrive a proposito della Terra di Feeria, stizzito giustamente dalle ridotte dimensioni (quelle, per intenderci, formato insetto) che spesso e a torto le attribuiscono: << è un reame che contiene molte altre cose accanto a elfi e fate, oltre a gnomi, streghe, trolls, giganti e draghi: racchiude i mari, il sole, la luna, il cielo e la terra e tutte le cose che sono in essa, alberi e uccelli, acque e sassi, pane e vino, e noi stessi, uomini mortali, qualora siamo vittime di un incantesimo >> (v. J.R.R. Tolkien, Albero e Foglia, Edizione Bompiani, Milano, 2000; traduzione dall'inglese di Francesco Saba Sardi; pag. 20-21). Ed è da questa rivelazione, a modesto parere di chi scrive, che ogni avventura videoludica dovrebbe iniziare (<< Gran parte delle "fiabe" parla di "avventure" di uomini nel Reame Periglioso o nelle sue incerte marche di frontiera >>, ibidem, pag. 21). Servirsi in primo luogo di un mondo fantastico (e verosimilmente edificato) e poi calarvi al suo interno il giocatore: ecco i mezzi espressivi di cui dispone Shadow of The Colossus e con i quali ha deciso letteralmente di meravigliare.
Vi sono anzitutto un viaggiatore ed il suo fedele destriero (Agro), ambedue entrati in una regione malinconicamente bella e proibita agli uomini mortali. Il loro ingresso nella terra di nessuno è dovuto al desiderio impellente di far tornare in vita una ragazza di nome Mono, esanime ed avvolta in candide vesti. Giunti finalmente nel Tempio del luogo, chiediamo a Dormin (un essere dalla voce inquietante) di restituire la vita alla nostra amata, sacrificata per il fatto di possedere un destino maledetto e da noi deposta con cura sull'altare dell'edificio. Noi, Nostra. Perché noi ed il viaggiatore saremo i protagonisti; noi combatteremo sedici colossi per distruggerne i rispettivi idoli. Così ci chiede del resto Dormin in cambio del suo servigio contro-natura; così hanno voluto prima di lui degli ingegnosi sviluppatori.

A proposito del "subcreatore", l'autore di fiabe come lui le intende, Tolkien ci illumina dicendoci che questi << costruisce un Mondo Secondario in cui la mente del fruitore può entrare. All'interno di tale mondo, ciò che egli riferisce è "vero", nel senso che concorda con le leggi che vi vigono. Di conseguenza ci si crede, mentre vi si è, per così dire, dentro. Nel momento stesso in cui l'incredulità si manifesta, l'incantesimo è rotto; la magia, anzi l'arte, ha fatto fiasco. E rieccoci allora nel Mondo Primario, a guardare dall'esterno il piccolo, abortito Mondo Secondario >>. (ibidem, pag. 53-54).
Insomma, vien da sé che affrontare la missione di Shadow of The Colossus senza un minimo di trasporto emotivo equivale a perdersene un'intera componente. Soprattutto: è sconsigliabile evitare totalmente la libera esplorazione (concessa fin da subito) e limitarsi alla sola uccisione dei colossi (che pure, come vedremo e com'è palese dal solo titolo, ricoprono un ruolo fondamentale).
Già Ico offriva frangenti in cui ci si soffermava unicamente per ammirare le geometrie del castello o le vedute esterne (qualora concesse). In quel breve attimo si dimenticava semplicemente la meta prettamente ludica del momento: si guardava ed ascoltava, ci si immergeva per un istante in un mondo fittizio (ecco, è così palese, un rapporto non invasivo fra estetica e videogioco!). Beninteso: non c'era e non c'è conflitto tra le due anime del concept.
In Shadow of The Colossus, è vero, non c'è più una figura eterea come la bella Yorda (onnipresente: sia che ci accompagni sia che ci sia sottratta) e non ci sono più i puzzle "vecchia scuola" a veicolarci verso lo scontro finale.
Ma in compenso c'è la rappresentazione ed il godimento virtuale di una natura arcaica che lascia letteralmente senza fiato (congiunta alla possibilità di cavalcare spensieratamente ed al gradito ritorno di sessioni platformistiche).
Si può discutere del perché (oltre all'esplorabilità delle lande ed alla presenza di lucertole e frutti - funzionali all'incremento di resistenza e barra della salute -) gli sviluppatori non abbiano sfruttato maggiormente una simile vastità ed abbiano affidato lo spirito ramingo unicamente alla mercé del giocatore. Ma forse può essere anche un bene, cosicché i più avventurieri giocheranno, scegliendolo, anche con il fascino di viaggi fini a sé stessi, mentre i meno arditi, per così dire, preferiranno compiere quei tragitti necessari a giungere il più in fretta possibile all'epilogo (per quest'ultimi la durata del gioco si aggirerà sulla decina d'ore circa).

Shadow of the Colossus

Shadow of the Colossus

Sfogliando "Albero e Foglia" scopriamo come anche un videogioco possa dimostrarsi se non fiaba quantomeno fiabesco (o "feerico", se preferite). Shadow of The Colossus è uno di questi ed ha infatti la grandezza di offrire ai suoi fruitori un mondo meticolosamente rappresentato ("subcreato", per dirla con Tolkien). Dalla più amena foresta al più desolato deserto, dalle titaniche rovine di civiltà eternamente sconosciute alle vallate dove spronare il proprio destriero e cavalcare con il rombo del vento. Una natura dal sapore arcaico e nostalgico per un gioco dal sapore nuovo, o quanto meno unico. Il titolo Sony possiede questo e condivide altro ancora. Dispensa ad esempio, come risaputo, dei colossi da fronteggiare, sedici in tutto, che stimolano l'epos al pari dello studio dei pattern e dell'ambiente circostante. Lottano i titani, siano essi mastodontici o più minuti; si dimenano e vogliono vincerci (schiacciarci se possibile). Ma c'è Mono da riscattare, che la scelta sia giusta o iniqua. E la risposta infine è sì: giocheremo felici e contenti. Appuntamento alla recensione della versione pal.