Shadow of the Colossus
di
Antonio Norfo
Aldilà di tutto, scendere le scalinate dello "Shrine of Worship" per la prima volta e capire cosa si celi dietro quella luce accecante e quei quattro archi di pietra comporta uno stupore tale da essere difficilmente comunicabile.
E' come tornare indietro con il ricordo al 1998, uscire dal villaggio Kokiri e trovarsi davanti agli occhi la piana di Hyrule; o ancora: è come approdare alle gole di La Theine Plateau e prepararsi ad esplorare le distese di Vana'diel con un moto di contentezza.
O semplicemente, anche se contestualizzati in un certo discorso, non ci sono paragoni fattibili con altri giochi: c'è un mondo in sé e per sé, capace di offrire resti di antiche civiltà per sempre sconosciute (rovine dominate da alberi, foglie, prati, deserti, laghi e scorci di mare).
Ecco l'essenza "feerica" di Shadow of The Colossus, ecco il sublime liberato.
Non che l'abbattimento dei colossi sia avaro di emozioni, tutt'altro. Semplicemente, come detto, non è tutto, ma non essere tutto, ovviamente, è ben diverso dal non essere nulla. E' questa infatti una delle qualità più "grandi" del titolo, capace di coinvolgerne ogni singolo aspetto (da quello ludico-contemplativo fino a quello funzionale-narrativo).
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Per scovare ognuno dei titani occorrerà anzitutto ergere la propria spada laddove vi è luce. La lama inizierà a riflettere una serie di raggi che, una volta unificati in un unico fascio luminoso, indicheranno poi la direzione da prendere per raggiungere il gigante di turno. Giunti da questi atipici nemici aventi sembianze animalesche (costituiti di pietra, metallo, pelliccia, erba, muschi, licheni e quant'altro) occorrerà colpirli a morte nei punti deboli indicati da un apposito simbolo, previo l'averli scalati. Per quanto poi concerne lo scalare, fanno eccezione i più minuti - praticamente l'undicesimo ed il quattordicesimo boss - garanti comunque di un ottimo coinvolgimento ludico. I sedici differiscono tra di loro per aspetto e caratteristiche: alcuni sono volatili ed altri acquatici, taluni bipedi, tal'altri quadrupedi; delle volte richiederanno inseguimenti in sella ad Agro, delle altre l'arco sarà più utile della spada. Da apprezzare in queste circostanze risulta poi l'interazione richiesta con gli ambienti circostanti, peccato solamente che fare degli esempi ai lettori equivarrebbe a rovinar loro la sorpresa e la tattica.
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Non tutti a dirla tutta ameranno i consigli/indizi in cui Dormin si prodigherà nel caso si tentenni troppo sullo studio del pattern avversario. Ma il modo con cui questi bestioni si dimenano e quello con cui il protagonista tenta di rimanere saldo alle pareti a cui è attaccato (almeno fin quanto la sua resistenza fisica glielo concederà) danno al tutto il giusto tocco di epos e credibilità. Le animazioni quasi sottolineano lo spirito innato e furente di sopravvivenza, ed è un reparto (prova ne sia la meticolosa ricostruzione dell'equino) in cui gli addetti ai lavori hanno mostrato un'innegabile maestria e cura del dettaglio. In verità estendiamo la lode a tutto il comparto audiovisivo, che si tratti degli effetti sonori, del soffio del vento o delle composizioni musicali (interattive con l'azione e la calma su schermo); che si parli delle scelte cromatiche, della regia virtuale, di una cascata ruggente o della sontuosa atmosfera generale.
Appurato che giocheremo felici e contenti l'altra domanda che assillerà il fruitore è se poi Mono ed il Viaggiatore vivranno felici e contenti. Tolkien aveva un'idea ben precisa su come dovesse essere il finale d'una fiaba e la sua, d'altra parte, non era una mera preferenza di stile. Sul lieto fine, o "eucatastrofe" come lui lo denomina, egli sottolinea: << il racconto eucatastrofico è la vera forma di fiaba e ne costituisce la suprema funzione >> (ibidem; pag. 91). Sarebbe molto presuntuoso, da parte di chi scrive, sfiorare solamente i temi poi toccati dal celebre scrittore. E lo sarebbe altrettanto "vincolare" forzatamente il medium qui in questione con altre forme letterarie. L'unica nota da fare in questa sede è che non è nell'equazione X gioco = "fiaba pura" che si riscontra la completezza di un'esperienza videoludica. Solamente si è voluto dire, lo ribadiamo, come in alcuni generi (e l'avventura alla Ico è tra questi) i punti in contatto con la fiaba possano dar vita a qualcosa di memorabile. Né accenneremo niente sul finale del titolo analizzato, non un dettaglio, non il suo contenuto (se lieto o meno lo scoprirà giustamente il giocatore).
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E' come tornare indietro con il ricordo al 1998, uscire dal villaggio Kokiri e trovarsi davanti agli occhi la piana di Hyrule; o ancora: è come approdare alle gole di La Theine Plateau e prepararsi ad esplorare le distese di Vana'diel con un moto di contentezza.
O semplicemente, anche se contestualizzati in un certo discorso, non ci sono paragoni fattibili con altri giochi: c'è un mondo in sé e per sé, capace di offrire resti di antiche civiltà per sempre sconosciute (rovine dominate da alberi, foglie, prati, deserti, laghi e scorci di mare).
Ecco l'essenza "feerica" di Shadow of The Colossus, ecco il sublime liberato.
Non che l'abbattimento dei colossi sia avaro di emozioni, tutt'altro. Semplicemente, come detto, non è tutto, ma non essere tutto, ovviamente, è ben diverso dal non essere nulla. E' questa infatti una delle qualità più "grandi" del titolo, capace di coinvolgerne ogni singolo aspetto (da quello ludico-contemplativo fino a quello funzionale-narrativo).
Per scovare ognuno dei titani occorrerà anzitutto ergere la propria spada laddove vi è luce. La lama inizierà a riflettere una serie di raggi che, una volta unificati in un unico fascio luminoso, indicheranno poi la direzione da prendere per raggiungere il gigante di turno. Giunti da questi atipici nemici aventi sembianze animalesche (costituiti di pietra, metallo, pelliccia, erba, muschi, licheni e quant'altro) occorrerà colpirli a morte nei punti deboli indicati da un apposito simbolo, previo l'averli scalati. Per quanto poi concerne lo scalare, fanno eccezione i più minuti - praticamente l'undicesimo ed il quattordicesimo boss - garanti comunque di un ottimo coinvolgimento ludico. I sedici differiscono tra di loro per aspetto e caratteristiche: alcuni sono volatili ed altri acquatici, taluni bipedi, tal'altri quadrupedi; delle volte richiederanno inseguimenti in sella ad Agro, delle altre l'arco sarà più utile della spada. Da apprezzare in queste circostanze risulta poi l'interazione richiesta con gli ambienti circostanti, peccato solamente che fare degli esempi ai lettori equivarrebbe a rovinar loro la sorpresa e la tattica.
Non tutti a dirla tutta ameranno i consigli/indizi in cui Dormin si prodigherà nel caso si tentenni troppo sullo studio del pattern avversario. Ma il modo con cui questi bestioni si dimenano e quello con cui il protagonista tenta di rimanere saldo alle pareti a cui è attaccato (almeno fin quanto la sua resistenza fisica glielo concederà) danno al tutto il giusto tocco di epos e credibilità. Le animazioni quasi sottolineano lo spirito innato e furente di sopravvivenza, ed è un reparto (prova ne sia la meticolosa ricostruzione dell'equino) in cui gli addetti ai lavori hanno mostrato un'innegabile maestria e cura del dettaglio. In verità estendiamo la lode a tutto il comparto audiovisivo, che si tratti degli effetti sonori, del soffio del vento o delle composizioni musicali (interattive con l'azione e la calma su schermo); che si parli delle scelte cromatiche, della regia virtuale, di una cascata ruggente o della sontuosa atmosfera generale.
Appurato che giocheremo felici e contenti l'altra domanda che assillerà il fruitore è se poi Mono ed il Viaggiatore vivranno felici e contenti. Tolkien aveva un'idea ben precisa su come dovesse essere il finale d'una fiaba e la sua, d'altra parte, non era una mera preferenza di stile. Sul lieto fine, o "eucatastrofe" come lui lo denomina, egli sottolinea: << il racconto eucatastrofico è la vera forma di fiaba e ne costituisce la suprema funzione >> (ibidem; pag. 91). Sarebbe molto presuntuoso, da parte di chi scrive, sfiorare solamente i temi poi toccati dal celebre scrittore. E lo sarebbe altrettanto "vincolare" forzatamente il medium qui in questione con altre forme letterarie. L'unica nota da fare in questa sede è che non è nell'equazione X gioco = "fiaba pura" che si riscontra la completezza di un'esperienza videoludica. Solamente si è voluto dire, lo ribadiamo, come in alcuni generi (e l'avventura alla Ico è tra questi) i punti in contatto con la fiaba possano dar vita a qualcosa di memorabile. Né accenneremo niente sul finale del titolo analizzato, non un dettaglio, non il suo contenuto (se lieto o meno lo scoprirà giustamente il giocatore).
Shadow of the Colossus
Shadow of the Colossus
Sfogliando "Albero e Foglia" scopriamo come anche un videogioco possa dimostrarsi se non fiaba quantomeno fiabesco (o "feerico", se preferite). Shadow of The Colossus è uno di questi ed ha infatti la grandezza di offrire ai suoi fruitori un mondo meticolosamente rappresentato ("subcreato", per dirla con Tolkien). Dalla più amena foresta al più desolato deserto, dalle titaniche rovine di civiltà eternamente sconosciute alle vallate dove spronare il proprio destriero e cavalcare con il rombo del vento. Una natura dal sapore arcaico e nostalgico per un gioco dal sapore nuovo, o quanto meno unico. Il titolo Sony possiede questo e condivide altro ancora. Dispensa ad esempio, come risaputo, dei colossi da fronteggiare, sedici in tutto, che stimolano l'epos al pari dello studio dei pattern e dell'ambiente circostante. Lottano i titani, siano essi mastodontici o più minuti; si dimenano e vogliono vincerci (schiacciarci se possibile). Ma c'è Mono da riscattare, che la scelta sia giusta o iniqua. E la risposta infine è sì: giocheremo felici e contenti. Appuntamento alla recensione della versione pal.