1917

Alfred H. Mendes meriterebbe un’altra medaglia. Oltre alla decorazione militare guadagnata sul campo per la missione di cui parlo nello speciale storico dedicato al film, infatti, il nonno buonanima del regista Sam Mendes, si guadagna a pieno titolo una menzione straordinaria al merito artistico alla memoria per aver ispirato, con i suoi racconti di gioventù, uno dei più bei film di guerra di questo primo scampolo di secolo. Anzi, e senza nulla togliere all’ottimo Dunkirk di Chris Nolan, probabilmente il migliore in assoluto.

Là dove il regista di Memento, infatti, giocava con la non linearità della narrazione, rubando un po’ a Tarantino e parecchio a se stesso nell’intrecciare storie vissute su diversi piani temporali, ma destinate a collidere nel finale, e scrivendo così una memorabile pagina di cinema d’autore, Mendes va ben oltre.

Il regista di Skyfall e Spectre non si è accontentato infatti di girare un bel film di guerra, ben sceneggiato e altrettanto ben recitato da quanto di meglio la scena attoriale inglese possa offrire al momento. Animato da passione sincera e percepibile dalla prima fino all’ultima scena delle due ore tonde di montato, Sam Mendes fissa invece con 1917 un nuovo punto fermo nella storia del cinema del quale, di qui in avanti, nessun regista d’azione potrà non tenere conto.

Mi spiego meglio, partendo proprio dall’aspetto più sbalorditivo del lungometraggio. Ossia il l’essere stato girato e montato come un’unica ripresa continua di tutta la storia, senza tuttavia tralasciare un’accorta gestione dei tempi di narrazione o cadere nella facile tentazione di apparire come un prodotto live footage di bassa lega.

Il viaggio dei protagonisti attraverso la Terra di Nessuno coinvolge in questo modo lo spettatore, tenendolo agganciato alla poltrona con il fiato sospeso fino all’ultimo fotogramma, senza nessun bisogno di inzepparci a forza una sequenza d’azione dopo l’altra, anche quando la bella sceneggiatura, scritta da Mendes a quattro mani con Kristy Wilson-Cairns, richiede un ritmo di narrazione meno concitato per ospitare un dialogo o qualche panoramica in campo lungo che permetta di apprezzare i magnifici paesaggi inglesi scelti come ambientazioni per la storia.

Scartata infatti la Francia dove si svolsero davvero le vicende raccontate, per rispetto verso i luoghi straziati dal terribile conflitto di poco più di un secolo fa, al punto che scavando in quei prati capita ancora oggi di dissotterrare ordigni, resti umani o altre macabre vestigia del passato, la scelta è caduta sull’Inghilterra. Essendo un film girato quasi tutto in esterni, la produzione ha dovuto sobbarcarsi di un enorme lavoro per ricreare trincee lunghe centinaia di metri e di diverso tipo (quelle tedesche realizzate con cemento e strutture semi-fisse, essendo i sudditi del Kaiser preparati a una guerra di posizione di lunga durata; molto più provvisorie, rinforzate appena da strutture in legno e dotate di pochi ricoveri coperti quelle inglesi, dal momento che l’esercito di Sua Maestà si aspettava di progredire velocemente nell’avanzata, occupando ogni postazione per un tempo limitato), piazzole d’artiglieria, fattorie distrutte dal nemico durante la ritirata e addirittura un’intera città in fiamme, trasformata dalle bombe in un letale labirinto di macerie.

Approfittando dell’ospitalità del demanio militare inglese nell’immenso poligono della piana di Salisbury, nel Wiltshire (quella dove si trova Stonehenge), e nell’area dell’aeroporto di Bovingdon nell’Herefordshire (dal quale decollavano le fortezze volanti dirette sull’Europa, negli anni quaranta del secolo scorso), i tecnici sono riusciti a ricreare set in grado di ospitare impressionanti scene di massa.

Per girare le quali, rinunciando a priori ai software utilizzabili per creare interi eserciti al computer, sono state arruolate circa 600 comparse, addestrate alla vita militare di trincea da inflessibili istruttori assunti all’abbisogna. Attori e comprimari hanno dovuto studiare sodo, e si vede, su come vestivano, si equipaggiavano, si muovevano e si comportavano i soldati del corpo di spedizione inglese in Francia. Perfino il linguaggio, il misto di dialetti britannici (c’è perfino un sikh con barba e turbante!) e la terminologia sono accurati da un punto di vista storico e apprezzabili da chi, come me, avrà la fortuna di vedere il film in lingua originale.

E poi la trama. L’ho tenuta per ultima, come dessert di una recensione che non ha potuto di tenere conto, dopo aver rischiato la slogatura della mandibola, assieme ai tanti colleghi accorsi per la première romana del film, di un comparto tecnico raffinatissimo e di una regia che scrive un nuovo capitolo della storia del cinema.

Guardando 1917, lo confesso, mi è subito venuto in mente Tolkien. E non solo perché sono da sempre un fan appassionato del professore di Oxford, o per l’analogia tra alcune situazioni raccontate e gli squarci sull’esperienza militare in trincea di John Ronald Reuel, narrati nella sua recente biografia cinematografica. Il fatto è che, a mio parere, il copione di Mendes racconta una vera e propria storia di hobbit. I due giovani caporali inglesi protagonisti del film, infatti, coinvolti loro malgrado in un dramma molto più grande di loro, che tuttavia non riesce a strappare loro l’ironia tipicamente inglese, l’amore per la terra e i suoi frutti, la speranza, assomigliano così tanto ai piccoli eroi de Il signore degli anelli da farti immaginare i tedeschi come fossero orchetti e la terra di mezzo fra le trincee, sconvolte da crateri di bomba e piene di cadaveri, come una Mordor dove nessuno vorrebbe andare.

Ma dove Blake s Schofield si avventurano senza esitare, volontari e pronti a ogni sacrificio. Il primo spinto dalla necessità di salvare il fratello da una trappola tesa dal nemico alla sua unità in procinto di attaccare. L’altro, moderno Samvise Gamgee a tutti gli effetti, quasi costretto, all’inizio, dal suo legame di amicizia nei confronti del commilitone. Nella sceneggiatura asciutta di Mendes, che testimonia senza agiografie patriottarde l’orrore per la guerra, senza sconfinare mai nelle logiche radical di certo cinema manierista e impegnato, non c’è posto per la politica o per la sociologia. Le cose che contano davvero, per i suoi protagonisti come per ciascun soldato impegnato davvero in zona di combattimento, sono sopravvivenza e cameratismo. Su questi due valori si fonda l’intero film, che racconta in modo toccante la storia di un’amicizia sincera, pulita. Più forte, all’atto pratico, della fatica e della paura di morire.

Il viaggio verso l’unità del fratello di Blake è raccontato tutto d’un fiato, senza stacchi di ripresa (tranne uno, necessario alla trama, e magistralmente inserito proprio a metà film, con grande gioia di bibitari e venditori di pop-corn), alternando scene d’azione concitata, colpi di scena, incontri fausti e infausti, fasi di esplorazione e di dialogo proprio come in una cerca cavalleresca dove gli eroi, proprio come nei romanzi di Tolkien, sono i più piccoli e inaspettati. In un crescendo di eventi, man mano che il tempo passa e l’ora fatidica dell’assalto che deve essere annullato a ogni costo, per salvare quei 1600 fucilieri del Devon in procinto di uscire dalle loro trincee verso un destino incerto, si avvicina. Giorno e notte si succedono senza sosta fino all’ultima, drammatica scena.

Poi, finalmente, un sospiro di sollievo, mentre il dramma si conclude e la camera ritorna a quella poetica inquadratura iniziale, regalando un’altra, e questa volta piacevole, sorpresa finale. Epica, poesia, dramma, azione. Ce n’è per tutti i gusti, in 1917, tanto da accontentare, pur essendo un film a schiacciante maggioranza maschile nel cast (una donna c’è, però, e s’inserisce nella trama con delicatezza d’altri tempi, in modo credibile, regalando alla storia una parentesi struggente ma piena di speranza), la nutrita pattuglia di giornaliste in sala, combattute come noi altri tutti, quando le luci si sono riaccese in sala, tra i sorrisi d’entusiasmo e qualche lacrima di sincera commozione.

Un film bellissimo, insomma, che mette insieme uno sforzo creativo grandioso ed innovativo che sarebbe un’ingiustizia definire solo tecnico, senza tirare in ballo l’arte, a una storia che è bella senza mai essere banale, priva di sbavature. Alla quale si può solo rimproverare, forse, di dipingere il nemico germanico (sarà anche colpa del clima di Brexit?) a tinte fosche, senza alcuna concessione. I tedeschi di 1917 si mostrano di rado (appena un po’ più dei disincarnati nemici del Dunkirk di Nolan), simili a una presenza malvagia aleggiante ai margini della scena, a un nemico temuto che mostra senza pudore la sua crudeltà contro cose e persone. Proprio come i mostri tolkieniani, contrapposti agli eroi della Contea britannica, che mostrano fino in fondo tutta la loro semplice e imperfetta umanità. Piccoli, forse, ma pronti a tutto e tutt’altro che indifesi.

Se questo film diventerà, come fu per il soldato Ryan di Spielberg, una fonte d’ispirazione per i film di guerra che verranno, da qui in avanti, è lecito davvero ben sperare per il futuro. Altrimenti, cari registi, vi raccomando di andare tutti a scuola. Da Sam Mendes!