Bones and all, recensione: l’horror on the road di Guadagnino ama e divora fino alle ossa
Luca Guadagnino racconta il Midwest americano in un film on the road dove i tramonti di Nomadland si stemperano nelle tinte di un horror maturo ed essenziale: l’unica speranza rimasta per i suoi giovani cannibali è l’amore.
È difficile resistere al fascino del tema forte al centro di Bones and All, il nuovo film di Luca Guadagnino a cavallo tra horror e dramma amoroso. Non capita spesso di parlare di film che mostrano esplicitamente scene di cannibalismo, in cui a cinque minuti dall’inizio una ragazza addenta il dito di un’altra e lo morde, portandosi via la tutta carne, fino all’osso. Il cannibalismo però è quasi una trappola. Nel film non mancano scene forti, rese ancora più insopportabili dal fatto che questo non è un horror commerciale che gode nell’impressionare e spaventare il suo pubblico, rilanciando su una violenza tanto esibita quanto finta. C’è persino una certa purezza in come vengono divorate le carni in Bones and All: c’è tutto l’orrore per un tabù infranto, tutto il dolore di un atto di violenza inferto per pura necessità.
Un Guadagnino on the road e maturo
Descrivendolo come un horror sul cannibalismo ambientato sulle strade desolate del Midwest statunitense degli anni ‘80 però non si fa rende giustizia a una pellicola che è tante cose insieme ed è meno guadagniniana del solito, almeno nella forma. In certe fugaci scene in cui gli interni e gli oggetti quotidiani vengono inquadrati e arricchiti di emozione e senso è impossibile non cogliere la mano del regista di Io sono l’amore, in quella variazione della lunghezza focale dell'obiettivo usata al posto di un classico zoom si ritrova una scelta stilistica già emersa in Suspiria. Eppure questo è forse il primo film della maturità non del Guadagnino regista, ma dell’uomo Luca, che per una volta è poco compiaciuto di sé e del suo indubbio talento, meno propenso a estasiare il suo pubblico con lussureggianti contesti borghesi. È un film intimo, essenziale, persino umile, che esplora le vite di due giovani drifter (gli sbandati si dirette in Italia) con uno sguardo pieno di comprensione e delicatezza, senza crogiolarsi nel disagio, senza approfittarne per farne del facile lirismo.
Ricordate Nomadland, il film Leone d’Oro di Chloé Zhao? In un certo senso questo è il Nomadland di Guadagnino, il suo primo road movie, che si muove nelle stesse zone, tra persone senza radici e alla ricerca di un’identità. A differenza della sua collega e in maniera sorprendente considerando il cinema del regista italiano meno italiano di tutti, Bones and All è un film on the road che evita la strada del lirismo ruffiano e descrive un senso di solitudine e disperazione spogliato, all’osso.
L’America cannibale di Guadagnino
I due protagonisti del film sono due giovanissimi che fuggono dal loro passato e dal loro contesto familiare. In Bones and All alcune persone sono eater, ovvero provano l’irrefrenabile impulso di cibarsi di carne umana. Non c’è alcuna volontà di approfondire questa narrazione, di creare un canone. Di fatto sappiamo solo che questi eater si nascondono tra le persone comuni, sono tendenzialmente nomadi e solitari, vivendo una vita di caccia e di occultamento ai margini. Solitari e disprati predatori apicali che dettano le proprie regole ma anelano a trovare qualcuno con cui condividere questa condizione.
Succede anche a Maren (Taylor Russell) quando il padre la pianta in asso, incapace di rassegnarsi a chi è. La ragazza scopre ben presto di non essere l’unica cannibale. Prima viene avvicinata dal sinistro Sully (un Mark Rylance davvero inquietante), poi s’imbatte in Lee (Timothée Chalamet), un giovane uomo che compensa i suoi “63 chili da bagnato con una bella dose di strafottenza”. Bones and All racconta il viaggio di Lee e Maren alla ricerca della madre e delle radici di lei, mentre anche lui a poco a poco si apre e le confida il suo confronto con il proprio cannibalismo in famiglia.
Il film dura appena qualche mese (da maggio ad agosto) e attraversa 6 stati del Midwest statunitense. Un viaggio lontano dai grandi centri e dai luoghi iconici, punteggiato da sinistri incontri con altri eater (che si riconoscono a vicenda dall’odore) e da uccisioni più o meno pianificate, sempre ricche di dolore e senso di colpa.
Sulla carta l’adattamento dell’omonimo romanzo è un film cupissimo ambientato negli anni ‘80 ma del tutto privo dell’ottimismo che associamo a quell’epoca (forse si è fermato alle Coste, come Cristo a Eboli). Eppure, come sempre accade quando si parla di Guadagnino, Bones and all non riesce a non essere una grande storia d’amore, raccontata da un regista che qualche sia il genere che approccia, finisce sempre lì: sull’identità che si può costruire e ritrovare attraverso l’intima vicinanza di qualcuno che ci capisce davvero.
Nell’amore però “non c’è spazio per i mostri”, ma già in Suspiria e Chiamami col tuo nome Guadagnino era andato ben oltre a un mero ritratto salvifico dell’amore che risolve tutto. Anche se i protagonisti di Bones and All fingeranno per un po’ “di essere persone e basta” non potranno sottrarsi alla loro vera natura e ai suoi mostri. Eppure proprio l’aver condiviso tanto, l’essersi sentiti capiti anche nei loro lati peggiori è ciò che li salva davvero e gli impedisce di essere mangiati vivi dalla propria solitudine e disperazione.