Diabolik, recensione: il Re del Terrore dei Manetti Bros annoia un po'
A cinquant'anni dal primo, storico tentativo cinematografico diretto da Mario Bava, il ladro assassino delle sorelle Giussani torna al cinema, ma continua a non convincere. La recensione del film del 2021.
Non si può dire che non ci abbiano provato i Manetti Bros, disposti a tutto pur di dare al Re del Terrore del fumetto italiano il grande film che meriterebbe. Lo si capisce vedendo una produzione curata e italianissima (le cui città fittizie di Clearville e Ghent riflettono alla perfezione una certa immagine borghese e pettinatissima di alcuni centri urbani del nord Italia), un cast che cura la rassomiglianza degli attori alla loro controparte cartacea, coinvolgendo nomi quotatissimi e "seri" come quelli di Marinelli e Mastandrea. Lo si capisce soprattutto vedendo come i Manetti tengano a freno quel loro gusto per l'ironia, l'esagerazione e persino un po' la caciara, aderendo il più possibile all'approccio essenziale, sempre distaccato e a tratti gelido del loro protagonista.
Un Diabolik serio ma noioso
Il film di Diabolik dunque è serio, mortalmente serio. I pugnali volano come nel fumetto e uccidono davvero, poliziotti e innocenti capitati nel posto sbagliato al momento sbagliato (peggior per loro, commenta laconicamente Diabolik). Ci sono belle donne innamorate sottoposte a un processo di gaslighting dal ladro per sicurezza e forse per noia, c'è una ghigliottina che sotto la pioggia perpetua nel modo più cruento possibile le condanne a morte decise da una giustizia non meno distaccata e crudele dell'uomo che ne rifiuta leggi e regole, rubando diamanti e gioielli.
Il mondo dipinto dal film dei Manetti è ricolmo di chiacchiere ai piani bassi, facce umili che servono un'onnipresente borghesia ricchissima e saldamente al controllo del potere. È un mondo più sottile delle pagine di carta su cui sono stampati gli albi di Diabolik, in cui non si respira verità e realismo. Non tanto perché la pellicola sceglie in ambienti, scenografie, luci e composizioni di ricreare il più possibile il linguaggio grafico del fumetto, anzi: è uno dei meriti del film. Tuttavia c'è un chiaro senso di posticcio. Clerville e Ghent non sembrano set cinematografici perché Diabolik emerge dall'ombra più assoluta o perché s'infila in botole e passaggi segreti che si aprono all'improvviso.
Diabolik manca di brividi: la colpa è della trama
A rendere inconsistente l'atmosfera del film è una trama davvero balbettante. Il film ha scelto di adattare per il grande schermo il terzo albo della serie originale, L'arresto di Diabolik. La scelta è dettata dal fatto che si tratta della storia in cui Diabolik incontra l'amata Eva Kant e smette di essere un solitario manipolatore, gettando le basi di una coppia criminale formidabile. Nel film Lady Kant si avvicina progressivamente al misterioso ladro, interessato al suo prezioso diamante rosa, salvo poi trovare la capacità di conquistare la sua fiducia. Entrambi sono guardinghi, circondati da persone che disprezzano, ma riescono pian piano a trovare un'intesa comune.
Nonostante la sceneggiatura smussi parecchi passaggi più che datati (l'albo uscì nel 1963), non riesce assolutamente a creare una storia appassionante, men che meno terrorizzante o dove si respiri il pericolo, la violenza, il brivido del terrore e della trasgressione.
È tutto algido, distaccato, senza vita, oltre che terribilmente prevedibile. Miriam Leone è splendida e s'impegna molto nel ruolo della Lady pronta a stravolgere la sua vita per l'uomo giusto, mentre Luca Marinelli non riesce proprio a centrare il personaggio, a trasmettere la sensazione di pericolo e spietatezza che dovrebbe rendere Diabolik il diavolo, il demone temuto dai cittadini a inizio film. A salvare il salvabile è il solito, concreto, affidabile Valerio Mastandrea, solido come una roccia granitica in un film spesso posticcio come i fondali dietro cui Diabolik nasconde i suoi covi.