Men, la recensione: gli uomini di Alex Garland non fanno davvero paura
Un titolo altisonante, un tema attualissimo, la promessa di un horror forte e a tratti politico: Men promette tantissimo ma non mantiene quasi nulla. La recensione.
Alex Garland è un grande nome dello scenario cinematografico di genere attuale oppure no? La sua promessa di brillante sceneggiatore e carismatico regista di fantascienza, weird e horror è mantenuta oppure disattesa? Sono domande che viene da porsi vedendo Men e purtroppo stavolta le risposte non possono che essere negative. Stavolta lo sceneggiatore di The Beach e regista di Annihilation ed Ex Machina ha davvero sbagliato film: non ci sono dubbi.
L’aspetto più interessante di Men è tentare di ricostruire a posteriori cosa sia andato storto, perché le premesse e il cast erano davvero ottimi. Anche i più strenui detrattori di Garland dovrebbero concedergli di aver fatto una scelta non banale e molto, molto efficace per quanto riguarda i due protagonisti. Jessie Buckley e Rory Kinnear sono due interpreti di razza che abbiamo imparato a conoscere in ruoli ancillari di grandi produzioni o in piccoli film da comprimari. Due nomi magari non così noti al grande pubblico, magari non così blasonati per via del loro aspetto non strepitosamente piacente, ma che qui dimostrano la pasta degli attori in grado di raccogliere e vincere quasi ogni sfida. Di sfide in Men per entrambi non ne mancano e anzi: quel poco che si può salvare è per merito loro e delle loro doti.
Men, gli uomini come minaccia: il significato del film di Alex Garland
Una sola parola, al plurale, senza spiegazioni, eppure il contesto e il sottotesto è immediatamente comprensibile: Alex Garland con il suo nuovo horror parla di uomini. Tutti gli uomini, ogni genere di uomo, in aperta contrapposizione con quell’espressione “not al men” con cui spesso si replica a raccapriccianti fatti di cronaca che sottolineano impietosi come il genere maschile - talvolta persino inconsapevolmente - attui comportamenti e atteggiamenti intimidatori, aggressivi, coercitivi e violenti contro le donne.
C’è una sola donna in Men e una moltitudine di uomini, interpretati però per la maggior parte dal talentuosissimo, sempre sotto utilizzato Rory Kinnear (Tanner nei Bond di Daniel Craig, Frankestein in Penny Dreadful). Jessie Buckley, candidata lo scorso anno agli Oscar come miglior attrice non protagonista per la sua performance in La figlia oscura, qui torna a vestire i panni di una donna non facile, dagli angoli non smussati. Harper è in vacanza nel piccolo villaggio inglese di Cotson. Ha affittato per sé una dimora storica su più piani, che le viene mostrata dal proprietario Geoffrey, un uomo così sopra le righe e peculiare da suscitare l’ilarità appena trattenuta della protagonista.
Mentre si trova a Cotson, Harper esplora i dintorni e scopre una vecchia linea ferroviaria abbandonata e un uomo che si aggira, nudo, nei pressi di alcune case diroccate. È solo il primo di una serie di inquietanti incontri che scuotono l’animo di una donna e che danno rendono sempre più minacciosa l’atmosfera. Un ragazzino indisponente, la polizia, gli avventori del pub locale, un guardone: il circondario sembra essere abitato solo da uomini e tutti manifestano una somiglianza sinistra con le fattezze di Geoffrey. È solo frutto dall’immaginazione di Harper, ancora scossa per la drammatica dinamica con cui suo marito si è tolto la vita sotto i suoi occhi?
Not all men: Men esplora (goffamente) il mondo visto dalle donne
Men si cala appieno nel punto di vista di Harper, dando una spruzzata di folklore con l’apparizione nella chiesa locale di Green Men (la maschera formata da foglie scolpite nella pietra) e di una Sheela na gig (la scultura della donna che mostra la sua vulva). Seppur mostrate esplicitamente, queste due figure della tradizione folkloristica inglese e irlandese hanno un impatto minimo e confusionario su un film che già fatica a mettere a fuoco le sue priorità. Il mito vuole che l’Uomo verde sia un simbolo di rinascita legato alla fertilità della natura, mentre la seconda evochi un gesto apotropaico con cui si pensava un tempo le donne avessero la capacità di scacciare demoni e tempeste, mostrando le loro pudenda.
L’influsso dell’Uomo verde è evidente nella complessa e ambiziosa scena finale del film, che sfortunatamente scade più nel ridicolo che nell’immaginifico. Sin dal suo titolo Men vorrebbe mostrare una certa radice comune culturale sì, ma anche ancestrale, che porta gli uomini di qualsiasi posizione e in qualsiasi situazione a giudicare la donne, addossando loro responsabilità o colpe presenti tutt’altro che oggettive.
Al contempo il film si cala del tutto nei panni di Harper e finisce per rendere più opaco il suo sguardo: davvero gli uomini di Men sono una minaccia o il film sublima le paure e i pregiudizi di Harper, ancora scioccata dalla morte drammatica del marito avvenuta sotto i propri occhi e direttamente correlata alle sue azioni? D’altronde molti degli uomini che assediano Harper hanno ferite che ricordano quelle che lei ha visto nel cadavere del marito.
Il pericolo che Harper e lo spettatore percepiscono è reale o frutto della paranoia? Chi o cosa sono gli uomini di Men, cosa ci vuole dire Garland nelle loro continue trasformazioni e trasmutazioni? Non è dato saperlo: il regista di Ex Machina non sa come chiudere la sua storia, sia in maniera pratica, abbozzando un finale metaforico che sa tanto di fuffa, sia in maniera macroscopica, incapace di portare a termine un discorso appena abbozzato sul tema portante della pellicola. Men fatica a porre le domande suggerite dal titolo ed è molto lontano da poter fornire le risposte, giuste o sbagliate, riuscite o fallimentari che siano.