No Time To Die, recensione: con Daniel Craig si chiude un'era di Bond (e di cinema)

di Elisa Giudici

No Time To Die è l'ultima fiammata di un'era ormai finita: quella di Daniel Craig nei panni di James Bond. Nato sotto i peggiori auspici (un protagonista riluttante convinto con un cachet stellare, problemi di leak di trama e pandemie globali, persino l'acquisizione di MGM da parte di Amazon), al cinema Bond 25 sembra essere tutto quello che sappiamo non é stato: un film voluto, sentito, emozionato e quindi emozionante.

Una generazione saluta il suo Bond

Bastano un pugno di scene a capire perché nonostante il #MeToo e la pressante esigenza di rendere Bond più al passo col sentito contemporaneo (ovvero più giovane, meno bianco, meno maschio e macho), i produttori abbiano fatto di tutto per convincere Daniel Craig a tornare sui suoi passi e fare un ultimo Bond, il quinto. Daniel Craig è il Bond di questa generazione, lo 007 che ha introdotto orde di giovani cinefili nel mondo dell'agente al servizio di sua maestà. No Time To Die è un film che per certi versi non può che funzionare, perché passa dal via e incassa quanto costruito con tutti i film precedenti: Casinò Royale, Quantum of Solace, Skyfall e Spectre.

Non è tanto un lascito narrativo, perché la reintroduzione della Spectre continua a rivelarsi un fuoco di paglia. Il venticinquesimo Bond si fa apprezzare per una partenza che coniuga un certo ritorno alle origini bondiane (riferimenti grafici e costruzione strutturale in primis) con una ventata di ammodernamento del sempre più spinoso rapporto tra Bond e il mondo femminile. No Time To Die fa la scelta giusta, non tentando di cambiare un vecchio lupo dai vizi radicati come James (che continua a bere senza sosta e ad approcciare il genere femminile tutto con piglio oltremodo sicuro) ma introducendo al suo fianco figure di supporto interessanti. La migliore? La bella Paloma. Funziona benissimo Ana de Armas nei panni della Bond Girl e agente della CIA alle prime armi, piena di entusiasmo ma molto emotiva. Meno entusiasmante Lashana Lynch nei panni dello 007 in carica: troppo ingessata, troppo costretta nel ruolo di donna forte ed efficiente su cui si scaricano sulle spalle spinose questioni razziali e un mezzo suggerimento per ereditare la carica di doppio zero cinematografico.

Il vero lascito di No Time To die

Il lascito di cui No Time To Die fa tesoro è quello affettivo: il pubblico andrà in sala per vedere ancora una volta, per l'ultima volta Daniel Craig nei panni di James. Il film lo sa e di fatto si trasforma in un onore alle armi per lui, che ripercorre scene cult e personaggi rimasti nel cuore di tutti durante la sua era con levità, ironia, persino un po' di tenerezza. Se la prima parte procede grandiosa e ambiziosissima (la regia di Cary Fukunaga è ottima e conferma che 007 sarà sempre meno incline a venire affidato a registi meno che affermati e criticamente acclamati), con l'entrata in scena di Safir (Rami Malek) e del suo cattivo incolore e un po' incoerente il film perde slancio e verve, finendo per girare un po' a vuoto.

Al centro della storia c'è ancora Madeleine (Léa Seydoux), il vero amore di questo Bond. Il film però dimostra di essere ben consapevole che è un'altra Bond girl di quest'era ad aver lasciato un ricordo indelebile e si permette di darle spazio. D'altronde No Time To Die ha tempo per tutte le donne di Bond: le madri surrogate e le amanti, così come gli amici passati e presenti. È una festa di pensionamento e una riunione di famiglia, una pellicola in cui a Daniel Craig viene concesso un'addio alle armi come nessun doppio zero mai prima d'ora.

Se nella scrittura si sentono tante correzioni - di tiro, di timbro, di direzione - è nel comparto tecnico che questo film dà il suo meglio, a partire dalla splendida, maestosa regia di Cary Fukunaga. Dopo gli epocali Bond di Sam Mendes sembra definitivamente tramontata l'era di registi anonimi alla guida di 007.