Recensione Wonder Woman 1984: La verità vince sempre
Non è facile inquadrare Wonder Woman 1984 senza pensare al fenomeno che Patty Jenkins, regista di entrambi i film con protagonista Gal Gadot nel ruolo della supereroina, ha messo in piedi dopo l’uscita della prima pellicola nel 2017.
Il primo capitolo dedicato alla bella Amazzone rappresentava infatti il primo adattamento DC Comics totalmente privo di quella cappa austera e seriosa che aveva caratterizzato tutte le precedenti produzioni. La Jenkins stava quindi segnando un nuovo percorso da seguire, decisamente apprezzato dal grande pubblico, ripreso poi anche da altri prodotti, come Aquaman. Insomma, la regista californiana ha mostrato come costruire personaggi credibili, forti e autoritari senza privarsi di una sana forma di autoironia che avvicina il supereroe alla vita di tutti i giorni.
La Gadot gioca sicuramente in casa, con una prova recitativa che sembra calzargli a pennello, tanto da saperci costruire intorno un fenomeno di tutto rispetto, che l’ha consacrata a essere uno dei membri più amati dei cinecomic dedicati ai fumetti della DC.
Dal suo esordio nella prima pellicola di riferimento è passato diverso tempo, cronologicamente parlando. Diana è rimasta sempre la stessa nell’aspetto, ma l’insieme delle esperienze vissute durante la guerra la hanno profondamente cambiata, sebbene continui ad aleggiare, preponderante, il fantasma del compianto Steve Trevor (Chris Pine), capace di fare ritorno in questo sequel grazie a un escamotage utilizzato spesso sia nei comics, che nei film.
Tutto inizia dal ritrovamento di una strana pietra di citrino, apparentemente di nessun valore, che in realtà sembra rispondere a una delle tante domande che molti di noi, eroi o meno, ci siamo posti almeno una volta nel corso della nostra vita: Cosa succederebbe se da un momento all’altro avessimo la possibilità di veder realizzato un nostro desiderio?
Seppur sottovalutato nella forma, il desiderio di Diana è quello di ritrovare il compianto amore della sua vita scomparso durante la guerra. Grazie a questo espediente entrano in scena anche i personaggi comprimari del racconto, ognuno pronto a esaudire un desiderio senza preoccuparsi delle conseguenze, mosso chiaramente da interessi personali non sempre accettabili positivamente nella scala dei valori.
Il mandaloriano Pedro Pascal, qui nelle vesti di Maxwell Lord, cerca di ottenere potere e rispetto come impresario ai vertici di una ditta petrolifera ormai sul lastrico, mentre Kristen Wiig, qui alle prese con Barbara Minerva (Cheetah), un personaggio molto importante del background cartaceo della supereroina Wonder Woman, vuole semplicemente essere indipendente, forte e apprezzata da tutti.
Lo spettacolo scritto dalla Jenkins insieme a Geoff Johns e Dave Callaham scava in uno dei sentimenti umani più inflazionati degli ultimi anni come l’avidità, portando a galla tutto lo spettro delle emozioni negative che ne accompagnano la forma, al punto da indicare una buona morale sul finale, senza però emergere per intensità, ricercando piuttosto la facilità della chiusura senza particolari colpi di scena.
Un po’ dispiace, se non altro perché lo script sottolinea da subito le scelte intraprese dalla regista: Diana e gli altri personaggi vengono messi di fronte a una scelta da compiere, costretti a decidere se pensare egoisticamente al loro bene o a quello degli altri. E' chiaro che la supereroina sceglierà il bene comune, conscia che la sua missione è quella di proteggere l'umanità senza scendere a compromessi.
D’altronde, come abbiamo imparato analizzando i supereroi dell'universo cinematografico DC, Wonder Woman con il suo lazo dorato rappresenta il concetto di verità, la stessa verità che a volte viene omessa per convenienza a discapito degli altri, restando però capace di riportarti sulla retta via quando le occasioni lo richiedono.
Facendo fede al titolo del film, questo secondo capitolo trova la sua collocazione temporale negli sfavillanti anni '80, e la produzione ha riprodotto con dovizia di particolari ambienti e outfit relativi al periodo, con la volontà di riuscire a strappare anche qualche sorriso in sala, senza però calcare la mano sul versante comico.
Le scene d’azione lasciano invece qualche dubbio, prestando il fianco a pose un po’ plastiche e troppo coreografate, lasciando la sensazione di assistere a un balletto piuttosto che a un combattimento vero e proprio. Un esempio su tutti è quello relativo ai movimenti “felini” di Cheetah, un CGI misto a trucco facciale troppo marcato che ricorda, inutile girarci intorno, la discutibile messa in scena del recente Cats.
Hans Zimmer regala potenza al racconto con una colonna sonora dignitosa, capace di lasciare il segno soprattutto nel prologo ambientato a Themyscira, dove una bravissima Lilly Aspell interpreta la giovane Diana in un flashback, durante una delle prove in cui le amazzoni vengono sottoposte durante la loro adolescenza.
Praticamente si assiste a una versione dei cross-fit games immaginata nell’antica Grecia, con tanto di cavalcata e tiro con l’arco, ma sul finale non ci attende una coppa o la gloria, bensì la coscienza di aver dato il massimo dall’inizio alla fine. D’altronde è la stessa Robin Wright a rincarare la dose: Nessun vero eroe nasce dalla menzogna.
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Redazione