Per A Real Pain andrebbe celebrato Jesse Eiseberg più che il vincitore dell’Oscar Kieran Culkin

Kieran Culkin ha vinto un Oscar per la sua interpretazione in A Real Pain ma se c’è qualcuno da celebrare, quello è Jesse Eisenberg.

di Elisa Giudici

Non c’è commentario migliore al discorso che fa A Real Pain dell’esito dell’ultima tornata di Oscar che ha incoronato il suo interprete Kieran Culkin come miglior attore non protagonista. L’attore ha vinto il suo primo Oscar dopo una stagione in cui si è aggiudicato praticamente ogni premio del settore, dopo una pioggia di critiche entusiaste per la sua performance nei panni di co-protagonista della pellicola Benji Kaplan.

Pellicola che è stata scritta e diretta da Jesse Eisenberg, attore passato dietro la cinepresa. Con questo suo secondo progetto porta su schermo la rielaborazione della sua personale storia familiare, ma anche una riflessione matura e agrodolce di ciò che le seconde e terze generazioni di ebrei americani discedenti dei sopravvissuti all’Olocausto stanno affrontando. A Real Pain infatti racconta il viaggio in Polonia di due cugini la cui nonna è scampata ai campi di concentramento dopo essere fuggita negli Stati Uniti prima dell’inizio della guerra, presagendo il peggio. Dopo la morte della donna, grazie all’eredità che ha lasciato loro, i due hanno deciso di prendere parte un “tour della memoria”, un viaggio organizzato che porta turisti statunitensi a visitare i luoghi collegati allo sterminio ebraico voluto dal terzo Reich.

Il gruppo di cui i due cugini fanno parte è composito. Nel tratteggiare i personaggi che ne fanno parte e il motivo per cui gli stessi hanno deciso d’intraprendere questo viaggio A Real Pain scrive la pagina più bella della sua sceneggiatura, quelle che danno più spunti di riflessione. Oltre ai due cugini che hanno un collegamento più teorico che pratico con l’Olocausto, ci sono discendenti di sopravvissuti alla Shoah, come per esempio una donna la cui madre non ha mai fatto parola di quanto successo, oltre a un giovane uomo sopravvissuto a una pulizia etnica in Ruanda. L’esule trasferitosi negli Stati Uniti partecipa al tour perché convertitosi all’ebraismo, sentendosi vicino a quanto passato dagli anziani ebrei esuli dall’Europa che ancora popolano il quartiere newyorkese in cui vive. Il film rende incisivo persino il personaggio della guida, un giovanotto inglese che non ha legami con la cultura ebraica, ma ne è tanto affascinato (ossessionato) dall’averla resa oggetto di studio a Oxford e del suo lavoro quotidiano. Questa bizzarra compagine di sconosciuti trascorre quindi qualche giorno insieme in Europa, in Polonia, affrontando “un tour del dolore”, a metà tra una vacanza di relax e un momento di memoria e riflessione.

Nei suoi momenti più incisivi A Real Pain suggerisce una velata ma acuta riflessione proprio su ciò che rimane dell’Olocausto, che per essere ricordato generazione dopo generazione da orrore indicibile e diventato una sorta di contenuto standardizzato, caposaldo di ogni sopruso o pulizia etnica, sintetizzabile in un tour a tappe raggiungibili con un comodo minivan. Così simbolico, così universale da diventare personale anche con chi con la sua storia ha poco a che fare. David e Benji Kaplan sono due ebrei che sanno pochissimo della loro stessa cultura, che oscillano dal sentirsi in qualche modo tornati alle proprie radici (che solo però a loro del tutto estranee) e dal comportarsi come i più prevedibili turisti statunitensi in Europa.

Kieran Culkin brilla ma la vera stella è Jesse Eisemberg

Dentro il film c’è un secondo filone narrativo, riguardante la loro relazione di cugini cresciuti quasi come fratelli ma poi allontanatisi. Il viaggio in teoria è un momento per ravvivare un legame raffreddatosi e ricchissimo di contraddizioni, ma finisce proprio per mettere in evidenza cosa li abbia divisi, a partire dai caratteri reciproci. Benji è naturalmente affabile e carismatico, il tipo di persona la cui onestà non risulta brutale ma commovente, con un approccio rilassato alle regole e alle persone. David al contrario è rigido e scostante negli approcci, educato ma distante. Il film si apre suggerendoci come uno dei sue possa non essere felice e passare un momento di difficoltà, ma con il solito sviluppo circolare in cui la fine richiama l’apertura ci mostra come in realtà sia l’altro ad attraversare una profonda crisi esistenziale.

I due sono poli opposti, che provano disagio e fastidio di fronte ai limiti dell’altro, ma al contempo ne inviano profondamente i punti di forza che vengono dati per scontati dal possessore. Culkin, così come il personaggio che incarna e che sembra a lui caratterialmente affine, attrae subito l’attenzione per quella sensazione di libertà nel trasmettere i propri sentimenti, ciò che vive, tanto quasi da far sparire il commentario talvolta non proprio tenere che il film fa su di lui.

Tuttavia è Jesse Eisemberg, a cui tocca il cugino più convenzionale e noioso, in cui nessuno si vorrebbe identificare, a fare la maggior parte del lavoro qui. Non solo perché fa da spalla e contraltare ragionevole a Culkin che così si può abbandonare agli acuti della sua interpretazione. Nel momento chiave del film che svela perché Benji si comporti così Culkin non è nemmeno in scena. È Eisemberg in un lungo dialogo a mettere sul piatto gli elementi mancanti con grande naturalezza, grande emotività. Jesse e David sono le parti meno memorabili di A Real Pain dentro e fuori la finzione, ma quelle che poi fanno funzionare la storia, la ancorano con concretezza e ne amplificano la portata emotiva.

Certo il film è un po’ scarno nel come viene presentato, a livello tecnico. Un esempio è l’utilizzo reiterato, ossessivo, talvolta stonato dei notturni e delle sonate più famose di Chopin, incolpevole compositore polacco la cui musica con l’atmosfera del film ha poco o nulla a che fare, spesso appiccicata alla buona a una scena perché c’è bisogno di una colonna sonora. Probabilmente Chopin, oltre a tenere compagnia a Eisemberg mentre scriveva il film, è al di fuori dei diritti di sfruttamento.