A un metro da te

Uno dei primi elementi di rottura che mi è stato possibile constatare tra le ultime generazioni novecentesche e le nuove leve del nuovo millennio è la sfrenata passione che quest’ultime provano nei confronti dell’amore malato. Non una bad romance alla Lady Gaga, non un amore tormentato e maledetto dal carattere dei protagonisti o dalle loro pessime scelte di vita.

No, a partire da Colpa delle stelle in giù, gli adolescenti millenials - mediamente più socialmente ed ecologicamente responsabili dei recenti predecessori - nutrono una sfrenata passione per le storie d’amore in cui ad essere avverso è il destino sì, ma quello clinico. Giovani con rarissime patologie, il sempre verde cancro nelle sue varianti più mortali, malformazione congenite, disturbi mentali: una bella fetta del fortunatissimo filone letterario degli young adult (con conseguenti trasposizione cinematografiche) mette al centro un duo di giovani, innamorati e malati. Basti pensare, anche sull’italianissima rete ammiraglia, al fenomeno televisivo dei Braccialetti rossi.

Ultima incarnazione di questo trend è A un metro da te, figlio di un copione che chiaramente ammicca a quel pubblico e trae ispirazione dalla six foot rules. L’intento è nobilissimo: attraverso la storia d’amore tra due adolescenti affetti da fibrosi cistica, il lungometraggio punta chiaramente ad aumentare la consapevolezza generale riguardo a questa grave patologia e alle sue pesantissime ricadute sulle vite dei malati.

Non solo la respirazione diventa difficoltosa e la vita di coloro che ne sono affetti diventa scandita da una serie infinita di pratiche mediche volte a non farli annegare nella produzione polmonare sovrabbondante di espettorato. Il contagio tra diversi ceppi che originano la patologia rende pressoché mortale il contatto fisico tra malati (quello con la popolazione sana è privo di rischi). Da qui la regola dei sei piedi, della distanza obbligatoria di almeno un metro l’uno dall’altro per evitare di peggiorare la propria situazione clinica.

Dati i presupposti, il film si scrive praticamente da solo: i due giovanissimi pazienti Will e Stella si conoscono in reparto, si amano ma non possono nemmeno toccarsi, perché la variante di fibrosi cistica da cui lui è affetto è particolarmente aggressiva e azzererebbe le chance di lei di ottenere un trapianto di polmoni.

Il cinema però non si fonda su nobili intenti ma su precisi contenuti e duole dire che il film di Justin Baldoni è semplicemente disastroso. La regia scontatissima, le interpretazioni convenzionali dei protagonisti Cole Sprouse e Haley Lu Richardson, ma soprattutto la sceneggiatura colabrodo e in più punti incoerente: tutto quel che costituisce il film varia tra il mal fatto e il ridicolo. Se uno spettatore entra in sala senza sapere nulla della malattia, non potrà che rimanere confuso di fronte alla spiegazione incoerente fornita dalla pellicola e a un dramma di cui non si comprendono bene le origini. Il rischio contagio è mortale, ma i due si ronzano addosso senza mascherina e precauzioni di rilievo per buona parte del film e poi scoppia il dramma e viene da chiedersi: “ma perché adesso e non prima?”