All We Imagine as Light - Amore a Mumbai è un film di cui si parla troppo poco
Amore a Mumbai è il titolo ingannatore di un esordio registico da non sottovalutare: quello di Payal Kapadiya, che riesce a raccontare l’India oltre i limiti dello stereotipo.
Giusto qualche giorno fa ci si chiedeva, un po’ stupiti, dove fosse rimasta nascosta Maura Delpero per tutti questi anni, prima che il bel Vermiglio la traghettasse all’improvviso sulla scena cinematografica internazionale a caccia di una nomination agli Oscar. Probabilmente nello stesso limbo dove ora si trova la sceneggiatrice e regista indiana Payal Kapadiya, autrice di All We Imagine As Light - Amore a Mumbai. Con la collega italiana Delpero, Kapadiya condivide alcuni tratti, in primis il suo recente passato da documentarista.
Come da brutto costume recente, All We Imagine As Light è stato definito “il suo esordio”, mentre invece è il suo primo lungometraggio di fiction, dopo il l'esordio vero A Night of Knowing Nothing, un documentario incentrato sulla vita degli studenti universitari indiani. A proposito di mistificazioni, è più che comprensibile (ma comunque ridicolo) il tentativo del distributore italiano di sviare il pubblico con quel “Amore a Mumbai” piazzato di fianco al titolo originale, che evoca storie romantiche frizzanti ed esotiche. Niente di più lontano da questo titolo, che certo parla d'amore e d'India, ma con tutt'altri toni.
All We Imagine as Light avrebbe potuto essere un avversario agli Oscar per Delpero
All We Imagine as Light è un titolo poetico che inquadra perfettamente la pellicola, la cui natura però è praticamente kryptonite per lo spettatore italiano medio, che i dati del box office descrivono sempre più spesso come ostile a una certa autorialità di fondo, specie se impegnativa. Vincitore del Prix speciale al Festival di Cannes, All We Imagine as Light è stato uno dei titoli più apprezzati in un’annata di competizione non proprio ad altissimo livello al festival francese. In una mossa di natura squisitamente politica e autenticamente suicida, la commissione selezionatrice indiana gli ha preferito la commedia Laapataa Ladies (Lost Ladies) come candidato indiano per la categoria Oscar al miglior film internazionale. Una buona notizia per Delpero, dato che questo titolo veniva già dato come favorissimo a una nomination nella categoria riservata ai film stranieri non in lingua inglese.
Perché piace tanto agli statunitensi e perché ha incontrato una certa ostilità in patria? Perché attraverso le sue tre protagoniste All We Imagine as Light costruisce un ritratto della vita in India che non sacrifica alla poesia una concretezza di fondo, vedendo tutte le difficoltà e i pregiudizi che le donne navigano, dandoli per scontati, quasi senza rendersene conto. Non è un film di denuncia, se non in qualche passaggio sussurrato, come quando per esempio la sua protagonista infermiera spiega con pazienza a una giovane donna come evitare l’ennesima gravidanza senza che il marito se ne accorga.
L’ospedale è il luogo dove convergono le storie delle tre protagoniste, infermiere in una struttura pubblica di Mumbai. Le tre si avvicinano via via che le loro storie s’intrecciano, spostandosi dalla città alla campagna. La protagonista è una donna giudiziosa di nome Prabha (Kani Kusruti), diventata una sorta di pseudo vedova. Il marito è andato in Germania a lavorare ed è praticamente scomparso, lasciandola indietro, costretta a mantenere le apparenze, respingendo possibili storie d’amore, a combattere la solitudine. A un certo punto le manda un regalo: una cuociriso elettrica tedesca. È in questo passaggio in cui si rileva tutto l’acume della scrittura di Payal Kapadiya, che senza far dire una sola battuta alla brava protagonista riesce a far filtrare i sentimenti contrastanti della donna rispetto al dono, che sembra quasi un tentantivo del marito lontano di mettere un segnaposto, di forzarla in una relazione da cui è fuggito.
Tre donne in fuga da Mumbai, alla ricerca di un senso
Più convenzionali ma comunque interessanti gli altri due ritratti: Anu (Divya Prabha) è una giovane infermiera spendacciona incastrata in una dinamica alla Romeo e GIulietta, Chhaya Kadam invece interpreta Parvaty, una pragmatica infermiera d’esperienza che il marito morendo ha lasciato sola senza i documenti necessari per salvare la casa dove vive da una grossa speculazione edilizia.
Pur sussurrate e sapientemente filtrate nella storia, ci sono tutte le criticità dell’India contemporanea nel film. Anu per esempio ironizza sul padre che le manda foto e curricula dei pretendenti per un matrimonio combinato che non vuole accettare, essendo innamorata di un ragazzo che vede di nascosto in quanto musulmano. Scopriamo poi che Prabha si è legata al marito fantasma proprio tramite un matrimonio combinato, il che rende ancora più complessa la valutazione della relazione e palese quanto sia una pratica ancora comunissima, che la donna sia d'accordo o no.
All We Imagine as Light riesce a far convivere smartphone e messaggistica con la poesia. In una scena un’annoiata Anu invia all’amato un messaggio in cui gli dice che bacerà le nuvole cosicché la pioggia che sta per scatenarsi possa baciarlo. È la poesia di un film che è prodotto con il sostegno di un partner francese (tanto che la Francia ha valutato di mandarlo come proprio candidato agli Oscar prima di preferirgli Emilia Perez). Con un budget non immenso riesce a raccontare sia la frenesia di Mumbai si una periferia rurale con altri ritmi, altre gerarchie sociali e una grotta con dipinti e incisioni primitive dove si manifesterà la svolta più moderna e contemporanea del film.
La forza di questo film sta nella scrittura e nella capacità di tessere piccoli momenti quotidiani che raccontano con grande profondità l’interiorità delle tre protagoniste e in particolare di un personaggio ricco di misteri nascosti come Prabha. Il suo limite è che, pur non avendo una durata infinita, non riesce del tutto ad arginare una certa stanca nella parte finale, pesando ben più di quel che dovrebbe.