Anarchia - La Notte del Giudizio
di
Eroismo, pietà, perdono, riconciliazione familiare. Una ricetta niente male per un film che si presenta ai botteghini con un manifesto inquietante, popolato da sinistre figure di una notte metropolitana dalla quale non c'é apparente via d'uscita. La notte é quella del giudizio, che dà il titolo a questo film come al suo prequel, firmato dalla stessa coppia di regista (James Del Monaco) e produttore (Jason Blum). L'antefatto é noto a chi ha visto il primo film e visto che ci sono ormai in giro più trailer che venditori cinesi di accendini, possiamo anticipare qualcosa a chi non ne ha avuto occasione senza temere il lancio di patatine anti-spoiler.
E' il futuro prossimo venturo, ossia una decina d'anni da oggi e sappiamo dai mezzi di comunicazione che il governo degli Stati Uniti é nelle mani dei Nuovi Padri Fondatori, che sono riusciti a loro detta nell'improbo compito di abbattere drasticamente il numero di crimini e criminali a valori andorregni. Il tutto grazie all'istituzione dello “Sfogo” annuale (chiedersi a chi sia passato per la mente di tradurre la parola “purge” dell'originale, che vuol dire “espiazione” o “purificazione” in questo modo é più che legittimo, e desiderare di spedire il tapino ad un corso accelerato sulla lingua di Albione pure). Per una notte all'anno ai cittadini é consentito compiere reati e atti di violenza, utilizzando armi leggere o qualsiasi mezzo abbiano a disposizione. Dal tramonto all'alba, le città americane diventano un'unica macabra arena teatro di massacri e regolamenti di conti e nella quale gli abitanti si ritrovano divisi d'ufficio, loro malgrado, in cacciatori e vittime, ruolo che può ribaltarsi in qualsiasi momento, quando la vecchina apparentemente indifesa, un attimo prima di essere abbattuta a colpi di spranga dal membro di una gang, estrae dalla borsetta una .44 magnum a canna corta e spedisce il cervello del guitto a decorare la parete alle sue spalle (la scena é inventata, ancorché possibile, perciò non vale come spoiler...).
Terzi incomodi sono quelli, e pare di capire che, grazie a Dio, siano la maggioranza, che preferiscono barricarsi in casa e attendere che la marea passi, che la violenza si sfoghi, che la sentina umana si svuoti del suo astio soffocato, regalando alla comunità un anno di quiete nel quale, giocoforza, sopravvive un numero sempre inferiore di violenti, decimato dalla fatidica ricorrenza.
Se il primo capitolo, girato com'é consuetudine di Blum, con una manciata (se paragonati a quelli normalmente spesi per una produzione hollywoodiana) di dollari, relegava il teatro dell'azione alla spaziosa villa dei protagonisti e alla strada di fronte, consentendo scorci esterni solo attraverso un uso intenso di spezzoni di notiziario chiamati a raccontare cosa stava succedendo nel resto degli USA, stavolta teatro dell'azione é l'intera città. La trama si snoda in una sapiente mescolanza di interni ed esterni, contenendo i costi senza farlo notare troppo e allo stesso tempo permettendo all'opera di acquistare un respiro più ampio. Ma gli spazi tra i palazzi, i vicoli, le strade buie oppresse dal cielo nero notturno, senza una stella, non liberano dalla claustrofobia, accentuandola, anzi, quando il ritmo sale e i personaggi, assortiti in modo tale che é pressoché impossibile, per spettatori e spettatrici, non immedesimarsi con qualcuno di loro e non affezionarcisi, si ritrovano nell'ennesima situazione disperata.
Gli attori, stavolta, sono tutti dei semisconosciuti. Manca la star di turno, come la Lena Headey del primo film, ma non se ne sente affatto la mancanza. Protagonisti e comprimari si guadagnano il pane alla grande, gettando un'ombra sui cachet milionari di qualche stella delle grandi produzioni, magari ormai sulla via del tramonto. L'ultima grossa novità, infine, é rappresentata dal cambio di prospettiva. Se nel primo film l'azione era confinata al micro mondo dei protagonisti, con brevi squarci della realtà filtrati dall'occhio freddo delle telecamere, e lo “Sfogo” era rappresentato come un dato di fatto e basta, stavolta Del Monaco scrive il secondo capitolo del suo manifesto politico cinematografico a tinte fosche, facendo annusare fin da subito, e mostrando poco a poco, man mano che il mistero dell'autoarticolato pieno di “men in black” (spoilerino ino ino...) si svela, l'esistenza di un ordito più ampio che lascia presagire un seguito (forse un prequel come si é lasciato scappare Blum durante la conferenza stampa di cui parliamo qui sotto) che racconti molto di più sui Nuovi Padri Fondatori e sulle loro reali intenzioni.
Chi andrà al cinema attirato dalla promessa di una violenza acida, al limite tra lo snuff e il torture porn, nichilista e spietata, dando per scontato l'epilogo stragista, rimarrà sorpreso. Ma non deluso, dal momento che il film di Del Monaco é tutt'altro che buonista. Dialoghi al vetriolo, un sonoro che squarcia i timpani ogni volta che un'arma automatica entra in azione, uso massivo di steady-cam da togliere il fiato e citazioni, più o meno velate, al cinema di strada, di serie A fino alla Z compongono un quadro generale che é un vero cazzotto allo stomaco. Si resta aggrappati alla poltrona con sensazioni altalenanti, arrivando a tratti a comprendere alcuni protagonisti dello “sfogo” e rimanendo stravolti (non é un parolone) dal grado di abiezione raggiungibile dalla specie umana quando vengono rimossi i limiti del vivere civile comunemente accettato. Sembra che allora la caccia al più debole, abbattuto come un cane rabbioso, per gioco, scambiato con denaro, venduto come una bestia da macello a chi se lo può permettere, imprigionato e trasformato in costoso giocattolo da mettere all'asta, sia l'unica realtà possibile, per un'umanità che ha ormai smarrito il senso e il rispetto di se stessa, oltre che del valore irrinunciabile della tutela della vita.
Ma dagli abissi più bui può spuntare la luce più brillante. Ecco allora che proprio la quotidianità banale di Eva e Cali, il prendersi e lasciarsi di Shane e Liz, la monomania disperata di Leo, vero “maverick” (eroe solitario) americano che arriva là dove nemmeno il Kurt Russell di Fuga da New York riesce (la sua parte sarebbe stata perfetta per un Clint Eastwood di trent'anni fa), diventano il crogiolo dal quale può nascere il riscatto. Che non necessariamente deve passa per la vendetta ma, anzi, si fonda su quanto di più contraddittorio può esistere nel mondo che ha inventato lo “Sfogo”: l'amicizia, la fedeltà alla parola data, l'amore, il perdono, la pietà. I protagonisti del film, persone comuni a volte sull'orlo della disperazione e dell'abisso, non si “sfogano”. Corteggiati dall'oscurità che li attornia, trovano nel gruppo la forza di andare avanti, di proteggersi a vicenda, di percorrere la loro strada fino in fondo, di perdonarsi e perdonare. Qualcuno di loro non arriverà alla fine (anche questa tradizione, lanciata nel primo film, viene rispettata da Del Monaco), per tutti, comunque, la vita non sarà più la stessa. Mentre spunta un'alba tragica sulla città e il conto alla rovescia in attesa di un altro “Sfogo”, ricomincia...
E' il futuro prossimo venturo, ossia una decina d'anni da oggi e sappiamo dai mezzi di comunicazione che il governo degli Stati Uniti é nelle mani dei Nuovi Padri Fondatori, che sono riusciti a loro detta nell'improbo compito di abbattere drasticamente il numero di crimini e criminali a valori andorregni. Il tutto grazie all'istituzione dello “Sfogo” annuale (chiedersi a chi sia passato per la mente di tradurre la parola “purge” dell'originale, che vuol dire “espiazione” o “purificazione” in questo modo é più che legittimo, e desiderare di spedire il tapino ad un corso accelerato sulla lingua di Albione pure). Per una notte all'anno ai cittadini é consentito compiere reati e atti di violenza, utilizzando armi leggere o qualsiasi mezzo abbiano a disposizione. Dal tramonto all'alba, le città americane diventano un'unica macabra arena teatro di massacri e regolamenti di conti e nella quale gli abitanti si ritrovano divisi d'ufficio, loro malgrado, in cacciatori e vittime, ruolo che può ribaltarsi in qualsiasi momento, quando la vecchina apparentemente indifesa, un attimo prima di essere abbattuta a colpi di spranga dal membro di una gang, estrae dalla borsetta una .44 magnum a canna corta e spedisce il cervello del guitto a decorare la parete alle sue spalle (la scena é inventata, ancorché possibile, perciò non vale come spoiler...).
Terzi incomodi sono quelli, e pare di capire che, grazie a Dio, siano la maggioranza, che preferiscono barricarsi in casa e attendere che la marea passi, che la violenza si sfoghi, che la sentina umana si svuoti del suo astio soffocato, regalando alla comunità un anno di quiete nel quale, giocoforza, sopravvive un numero sempre inferiore di violenti, decimato dalla fatidica ricorrenza.
Se il primo capitolo, girato com'é consuetudine di Blum, con una manciata (se paragonati a quelli normalmente spesi per una produzione hollywoodiana) di dollari, relegava il teatro dell'azione alla spaziosa villa dei protagonisti e alla strada di fronte, consentendo scorci esterni solo attraverso un uso intenso di spezzoni di notiziario chiamati a raccontare cosa stava succedendo nel resto degli USA, stavolta teatro dell'azione é l'intera città. La trama si snoda in una sapiente mescolanza di interni ed esterni, contenendo i costi senza farlo notare troppo e allo stesso tempo permettendo all'opera di acquistare un respiro più ampio. Ma gli spazi tra i palazzi, i vicoli, le strade buie oppresse dal cielo nero notturno, senza una stella, non liberano dalla claustrofobia, accentuandola, anzi, quando il ritmo sale e i personaggi, assortiti in modo tale che é pressoché impossibile, per spettatori e spettatrici, non immedesimarsi con qualcuno di loro e non affezionarcisi, si ritrovano nell'ennesima situazione disperata.
Gli attori, stavolta, sono tutti dei semisconosciuti. Manca la star di turno, come la Lena Headey del primo film, ma non se ne sente affatto la mancanza. Protagonisti e comprimari si guadagnano il pane alla grande, gettando un'ombra sui cachet milionari di qualche stella delle grandi produzioni, magari ormai sulla via del tramonto. L'ultima grossa novità, infine, é rappresentata dal cambio di prospettiva. Se nel primo film l'azione era confinata al micro mondo dei protagonisti, con brevi squarci della realtà filtrati dall'occhio freddo delle telecamere, e lo “Sfogo” era rappresentato come un dato di fatto e basta, stavolta Del Monaco scrive il secondo capitolo del suo manifesto politico cinematografico a tinte fosche, facendo annusare fin da subito, e mostrando poco a poco, man mano che il mistero dell'autoarticolato pieno di “men in black” (spoilerino ino ino...) si svela, l'esistenza di un ordito più ampio che lascia presagire un seguito (forse un prequel come si é lasciato scappare Blum durante la conferenza stampa di cui parliamo qui sotto) che racconti molto di più sui Nuovi Padri Fondatori e sulle loro reali intenzioni.
Chi andrà al cinema attirato dalla promessa di una violenza acida, al limite tra lo snuff e il torture porn, nichilista e spietata, dando per scontato l'epilogo stragista, rimarrà sorpreso. Ma non deluso, dal momento che il film di Del Monaco é tutt'altro che buonista. Dialoghi al vetriolo, un sonoro che squarcia i timpani ogni volta che un'arma automatica entra in azione, uso massivo di steady-cam da togliere il fiato e citazioni, più o meno velate, al cinema di strada, di serie A fino alla Z compongono un quadro generale che é un vero cazzotto allo stomaco. Si resta aggrappati alla poltrona con sensazioni altalenanti, arrivando a tratti a comprendere alcuni protagonisti dello “sfogo” e rimanendo stravolti (non é un parolone) dal grado di abiezione raggiungibile dalla specie umana quando vengono rimossi i limiti del vivere civile comunemente accettato. Sembra che allora la caccia al più debole, abbattuto come un cane rabbioso, per gioco, scambiato con denaro, venduto come una bestia da macello a chi se lo può permettere, imprigionato e trasformato in costoso giocattolo da mettere all'asta, sia l'unica realtà possibile, per un'umanità che ha ormai smarrito il senso e il rispetto di se stessa, oltre che del valore irrinunciabile della tutela della vita.
Ma dagli abissi più bui può spuntare la luce più brillante. Ecco allora che proprio la quotidianità banale di Eva e Cali, il prendersi e lasciarsi di Shane e Liz, la monomania disperata di Leo, vero “maverick” (eroe solitario) americano che arriva là dove nemmeno il Kurt Russell di Fuga da New York riesce (la sua parte sarebbe stata perfetta per un Clint Eastwood di trent'anni fa), diventano il crogiolo dal quale può nascere il riscatto. Che non necessariamente deve passa per la vendetta ma, anzi, si fonda su quanto di più contraddittorio può esistere nel mondo che ha inventato lo “Sfogo”: l'amicizia, la fedeltà alla parola data, l'amore, il perdono, la pietà. I protagonisti del film, persone comuni a volte sull'orlo della disperazione e dell'abisso, non si “sfogano”. Corteggiati dall'oscurità che li attornia, trovano nel gruppo la forza di andare avanti, di proteggersi a vicenda, di percorrere la loro strada fino in fondo, di perdonarsi e perdonare. Qualcuno di loro non arriverà alla fine (anche questa tradizione, lanciata nel primo film, viene rispettata da Del Monaco), per tutti, comunque, la vita non sarà più la stessa. Mentre spunta un'alba tragica sulla città e il conto alla rovescia in attesa di un altro “Sfogo”, ricomincia...