Apartment 7A: recensione del prequel di Rosemary's Baby

Un film stilisticamente ottimo, ma senza anima (umana o demoniaca)

di Chiara Poli

L’attesissimo prequel di Rosemary’s Baby, il cult horror firmato nel 1968 da Roman Polanski dal romanzo di Ira Levin e interpretato da Mia Farrow e John Cassavetes, sta per arrivare su Paramount+. Dal 27 settembre sarà disponibile Apartment 7A, ambientato nella New York del 1965 per mostrare i fatti antecedenti all’arrivo di Rosemary e Guy Woodhouse al Branford, il palazzo in Central Park West che fa da sfondo a entrambi i film.

La trama di Apartment 7A


New York, 1965. Siamo a Broadway e sul palco, a esibirsi insieme agli altri ballerini e cantanti durante un musical, c’è Teresa “Terry” Gionoffrio (Julia Garner, Ozark, Inventing Anna). Terry è felice: fa ciò che le piace, che ha sempre sognato di fare. La danza è la sua vita e sogna di diventare una star. Ma quando durante un numero provato mille volte subisce un terribile infortunio, il suo futuro è in bilico.

Riuscirà a continuare a mantenersi danzando? Realizzerà il suo sogno, con le conseguenze dell’infortunio?Mentre se lo chiede, affranta e dipendente dagli antidolorifici, Terry è disperata. Per caso incontra due anziani signori, Margaux “Minnie” Castevet (il doppio Oscar Dianne Wiest, Hannah e le sue sorelle) e il marito Roman Castevet (Kevin McNally, Gibbs nella saga di Pirati dei Caraibi) che si prendono cura di lei e le offrono una sistemazione. Terry accetta. Si trasferisce al Branford, un elegante palazzo a Manhattan. Presto, però, capisce di essere entrata in contatto con un modo oscuro e spaventoso, che alberga al Branford e da cui forse non riuscirà a fuggire…

Un prequel con un grande cast, ma senza originalità


Mettiamola così: chi non ha visto Rosemary’s Baby apprezzerà molto di più questo prequel, che - di fatto - ci ripropone la stessa trama e parte degli stessi personaggi del classico di Polanski.

Il personaggio della protagonista, Terry, compare anche nel film del ’68: è la ballerina tossicodipendente interpretata da Victoria Vetri. E per quanto Julia Garner sia sempre bravissima, qui la vera star è una sola: un’eccezionale Dianne Wiest, che usa la voce (consiglio la visione in lingua originale) come uno strumento magico per passare dall’amorevole signora della porta accanto a un mostro terrificante. Senza mai scomporsi, senza mai un capello fuori posto.

La Wiest ha qualcosa di ipnotico. Verrà certamente candidata a tutti i premi possibili per questa sua interpretazione di un personaggio centrale nella storia del Branford. In Rosemary’s Baby, Minnie Castevet era interpretata dalla grande Ruth Gordon, indimenticabile protagonista di Harold e Maude, che per la sua versione di Minnie vinse un Oscar. Sembrava impossibile superarla, eppure la Wiest ci riesce. E di misura.

La perfezione stilistica non basta


La messa in scena di Apartment 7A è di altissima qualità. Costumi, scenografie, fotografia, colore: tutto è curatissimo, per non parlare dell’uso perfetto di una colonna sonora memorabile.

Il clima claustrofobico che circonda Terry cresce minuto dopo minuto. Eppure, non c’è la tensione di Rosemary’s Baby. Perché sappiamo esattamente cosa succederà. Non c’è nulla di nuovo, niente di inatteso. Nemmeno il finale.

Una tale cura per la realizzazione avrebbe meritato maggiore originalità nella trama, soprattutto perché è quasi impossibile trovare appassionati di horror che non conoscano a memoria l’originale di Polanski.

Ecco quindi che ci godiamo lo spettacolo e le interpretazioni, ma non viviamo quell’ansia inarrestabile che avvolge Rosemary. Come un cerchio che si stringe sempre più attorno a lei, fino a toglierle il respiro.

Un ottimo esercizio di stile, insomma, che però non aggiunge nulla né al culto del Branford - per esempio un po’ di storia dell’edificio avrebbe fatto la differenza, come il racconto del nome originale: Bramford, da Bram Stoker (come racconta Ira Levin) - né alla storia di Rosemary, che resta nettamente superiore. Sotto tutti i punti di vista. Wiest esclusa.

Apartment 7A manca di anima, umana o demoniaca. I punti di vista potevano fare la differenza, metterci un po’ di pathos, di “cuore” narrativo, l’avrebbe reso ottimo. Ma cuore e anima mancano. C’è solo il cervello (stilisticamente impeccabile).