Asteroid City, recensione: tutta forma, niente sostanza nel nuovo Wes Anderson
Asteroid City è la raffinatissima confezione con cui Anderson rilegge i film di fantascienza degli anni ‘50. Formalmente è eccellente, ma dietro la sua facciata rifinita non c’è nulla da raccontare. La recensione.
Wes Anderson è ora ufficialmente vittima del suo stesso manierismo: Asteroid City ne è la definitiva conferma. In concorso al Festival di Cannes, la nuova pellicola del regista di Grand Budapest Hotel e I Tenenbaum raggiunge un livello di complessità stilistica e formale barocco. Sotto le pesanti stuccature di infiniti carrelli laterali e personaggi rigidamente disposti in scena con l’alternanza tra 16:9 e 4:3 però cosa si nasconde? Poco, pochissimo, almeno in termini narrativi. Ancor meno in termini umani.
Anderson ha rifinito e levigato tanto il suo cinema che ormai la sua arte vive e muore di forma, l’unica cosa che sembra dare gioia e soddisfazione al suo creatore. I suoi personaggi strambi ma vibranti sono stati sostituiti da figurine di cartone da disporre qua e là per raggiungere nuovi virtuosismi. Nonostante duri meno di due ore, Asteroid City è così distaccato e astratto da risultare talvolta tedioso, spesso ripetitivo.
E dire che, almeno in teoria, il film avrebbe tanto da dire, avendo tra i suoi temi l’elaborazione del lutto e la difficoltà di superare un certo senso d’imminente apocalisse.
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Di cosa parla Asteroid City
Asteroid City è l’omaggio di Anderson ai film fantascientifici degli anni ‘50. Ambientato nella cittadina desertica che dà il titolo alla pellicola, vede un gruppo di personaggi eterogenei rimanere bloccato ad Asteroid City, costretto a condividere gli spazi comuni e a stringere legami di conoscenza e amicizia.
Oltre al deserto e ai cactus, la cittadina di 87 abitanti ha solo 2 elementi degni di nota: una base militare in cui l’esercito statunitense conduce esperimenti scientifici e da cui vengono sganciate regolarmente bombe atomiche e un grande cratere causato dalla caduta di un meteorite migliaia di anni prima della fondazione della città.
Tra i protagonisti del film ci sono un gruppo di giovani brainiac, ragazzini con il pallino della scienza e di grande intelligenza, un fotografo di guerra che deve trovare il coraggio di dare una notizia terribile ai suoi figli, una scolaresca guidata da una maestrina zelante, un’attrice che sta memorizzando il suo nuovo copione, il proprietario del motel in cui alloggiano tutti i forestieri e la responsabile del laboratorio scientifico della base.
Un evento inaspettato - il passaggio genuinamente più spasso del film - costringe tutti i personaggi a restare più a lungo del previsto ad Asteroid City, finendo per elaborare ciò che li blocca: un lutto recentissimo, precedenti relazioni amorose finite male, intricati legami familiari, persino la necessità di “essere visti”.
Cosa funziona e cosa no in Asteroid City
A livello tecnico e come impatto visivo, Asteroid City si candida a essere una delle pellicole più intricate e complesse dirette dal suo regista. Rispetto al recente passato, Anderson riesce ancora una volta a spingere oltre gli elementi peculiari del suo cinema. Palette cromatiche ricercate, carrelli laterali, personaggi posizionati in maniera simmetrica nella scena: vengono spinti al limite tutti quegli elementi che rendono ogni singolo fotogramma del film un’inconfondibile immagine andersoniana. Il risultato di questi elementi è così riconoscibile che ormai gli spettatori identificano nella realtà oggetti, spazi urbani e contesti inconsapevolmente o casualemente alla Wes Anderson.
Anderson però manca totalmente il bersaglio dal punto di vista narrativo e non riesce proprio a creare un film veramente impattante da The Grand Budapest Hotel, l’ultima sua grande pellicola a parere di chi scrive. Nei suoi ultimi lavori manca un cuore narrativo, ma anche forse un minimo coinvolgimento umano.
Ad emozionare l’Anderson di oggi sono i set e gli oggetti scena più che le traversie degli esseri umani che racconta. In The Grand Budapest Hotel il messaggio che il regista veicolava attraverso i suoi personaggi era sentito e appassionato, tanto che lo spettatore finiva per affezionarsi ai protagonisti, soffrendo per loro e gioendo con loro.
Il successivo The French Dispatch è un malinconico omaggio al giornalismo di un tempo in corso d’estinzione, meno toccante e pregno, ma capace comunque di coinvolgere lo spettatore con capitoli narrativi più o meno riusciti montati sulla solita cornice esterna (il lavoro redazionale al magazine The French Dispatch).
Asteroid City invece manca completamente il bersaglio e risulta tedioso, ripetitivo, francamente non necessario. Fatico a immaginare uno spettatore che possa provare interesse per la star interpretata da Scarlett Johansson, la maestrina di Margot Robbie o il nonno giocatore di golf di Tom Hanks (le tre principali new entry del solito, infinito stuolo di attori andersoniani ricorrenti).
Negli ultimi film di Anderson la storia su schermo è sempre mediata da un livello superiore in cui qualcuno la scrive e la introduce allo spettatore. Il problema più marcato di questo film è che stavolta la cornice che contiene e organizza il racconto semplicemente non funziona. Quanto raccontato della trama fa infatti parte di uno spettacolo teatrale. Tra le tantissime cose che Asteroid City fa ma come puro pro-forma c’è quella di “tentare di spiegare come nasce uno spettacolo teatrale a partire dal suo processo creativo di scrittura”. Cosa ricaviamo da questa spiegazione? Assolutamente nulla, in termini intellettuali ed emotivi.
La divisione in atti e scene, il continuo rimbalzare dentro e fuori il palcoscenico, la scena emotivamente ricattatoria dei due attori sulle scale anti-incendio nel finale, il passaggio continuo ed esasperante in quanto immotivato tra 4:3 e 16:9, da bianco e nero e a colore: niente di tutto questo ottiene un risultato, se non quello di costringere il film ad arrancare,trascinandosi dietro questa sovrastruttura a peso morto.
L’impressione poi è che Anderson continui a fare lo stesso film, con minime variazioni sul tema, specie nei comparti che gli stanno meno a cuore. Sfido chiunque ad ascoltare la colonna sonora di Asteroid City contrapposta a campionamenti di quella di The French Dispatch e The Grand Budapest Hotel e riuscire a indovinare quale brano strumentale tutto trilli e diapason appartenga a quale titolo.
In una scena davvero non riuscita, una serie di personaggi intona, a mo’ di litania, un coro: you can’t wake up if you don’t fall asleep (non puoi svegliarti se prima non ti addormenti). Verrebbe da ricorda ad Wes Anderson che è difficile girare un film se prima non si ha una storia che sia qualcosa in più di una scusa per riprendere un virtuosismo senz’anima. Come puoi sognare un film se ne sei coinvolto meramente a livello teorico, astratto, tecnico?
In uno scenario cinematografico in cui il cinema di Wes Anderson è diventato poco più di una posa, trasformandosi nella vuota versione andersoniana del regista di un tempo, non dubito che ci sarà chi si entusiasmerà anche per queste briciole narrative impiattate come in un ristorante Michelin tre stelle.