Attacco a Mumbai

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Da ormai molti decenni il cinema indiano si è contraddistinto per essere uno dei tre grandi poli economico-produttivi del cinema mondiale.

Assieme a Hollywood e all'emergente mercato cinese (sempre più desideroso di portare all'attenzione del mondo la sua idea di kolossal), l'universo di Bollywood risulta tuttora il principale centro produttivo cinematografico del pianeta. Un passaggio così dirimente da favorire un superamento degli steccati, attraverso la realizzazione di film capaci di andare oltre i capisaldi narrativi del cinema indiano tradizionale.

Pionieristico in questo senso (se escludiamo tutta la filmografia "occidentale" sull'India, che quasi mai non rasenta l'esotico) fu il successo di "Slumdog Millionaire" di Danny Boyle, Premio Oscar al Miglior Film nel 2009. Un'operazione che sancì non tanto un successo cinematografico di critica e pubblico. Ma anche una valenza di tipo culturale. Con un cineasta inglese che si immergeva nel cinema indiano prospettando nuovi orizzonti pur senza tradire la quintessenza del genere (emblematica in questo senso la colonna sonora della pellicola ed il balletto finale conclusivo della storia).

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"Attacco a Mumbai - Una vera storia storia di coraggio" si inserisce parzialmente nell'alveo del sottogenere sorto a seguito del successo realizzato da Boyle. Sia per la presenza del protagonista Patel (candidato al premio Oscar nel 2017), sia per le molte comparse e maestranze provenienti dall'India. Nel settembre 2008 un commando pakistano di estremisti islamici, diede vita ad un attacco terroristico nella città indiana di Mumbai.

Principale centro per i terroristi fu l'albergo Taj Mahal, dove per oltre due giorni i terroristi cercarono di eliminare il maggior numero di persone all'interno dell'enorme struttura alberghiera. Il regista australiano Anthony Maras ci porta dentro questa storia, partendo dunque da un evento reale che fece epoca e che causò la morte di 195 persone. Ma lo fa attraverso una convinzione filmica, che negli ultimi tempi sembra aver assunto una propria fisionomia mutuata dal cinema di tipo documentaristico: quello dell'esperienza.

In questo senso "Attacco a Mumbai" si colloca nel solco di pellicole come il georgiano "Hostages" di Rezo Gigineishvili. Se nella pellicola presentata a Berlino nel 2017 però la fisionomia del romanzo familiare assumeva connotati alla cinema d'azione attraverso la cronaca di un fallito dirottamento aereo, in questo film Maras ci porta per quasi due ore all'interno dell'albergo cercando di farci vivere le emozioni ed i drammi di quelle ore.

Attacco a Mumbai

Da questo punto di vista l'operazione appare riuscita: il film risulta essere di una violenza così realistica da rasentare (non abbiamo infatti tutte le registrazioni dei tristi fati) il verosimile. E gli stessi momenti "retorici" e tipici del cinema americano tradizionale vengono evitati in nome di qualche piccola caratterizzazione di sceneggiatura finalizzata a far percepire il timore dei clienti dell'albergo. Maras è così fedele alla sua ottica di cinema come strumento di verità, che evita per esempio caratterizzazioni "classiste" o sociali all'interno del microcosmo dell'hotel chiuso (tragicamente) al mondo esterno.

Se nella carovana di "Ombre Rosse" Ford ne approfittava (riprendendo una vecchia novella di Zola, ambientata tra il confine franco-prussiano) per realizzare un affresco delle differenziazioni sociali degli Stati Uniti, e il duo Coward-Lean con "Eroi del Mare" mostrava l'armonia sociale del popolo britannico (quello sì, diviso in classi quasi nobiliari e di impronta monarchica), Maras semplicemente ci mostra la paura.

La paura di una madre di non vedere più il proprio bambino. O il coraggio del padre, desideroso di salvare a tutti i costi l'unità familiare. Gli stessi personaggi inizialmente eroici (come quello interpretato da Dev Patel) pur restando tali dimostrano piccole crepe. Ed i cinici della storia (Jason Isaacs) hanno invece afflati d'eroismo non previsti secondo i canoni tradizionali. Nel complesso l'opera si presta ad una visione finalizzata ad immergersi una realtà attraverso una sagacia tecnica che non manca al regista e a tutta la troupe australiana. Del resto la filmografia di questo paese è da sempre propensa a contaminazioni e a girare drammi in località e in contesti apparentemente distanti da quelli oceanici (come insegna "Un anno vissuto pericolosamente" di Weir).

Si gioca dunque su un stretto crinale: da una parte l'orrida agiografia su un albergo che (una volta riaperto) sembra voler quasi autocelebrarsi attraverso una sorta di film su commissione. Dall'altra il desiderio prettamente cinematografico di un regista che desidera far vivere al proprio spettatore (per due ore) cosa si vive dentro una situazione di terrore. Il secondo elemento ha la meglio sul primo, e questo rende "Attacco a Mumbai" un film degno di essere visto.

Attacco a Mumbai

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