Babylon, recensione: Damien Chazelle canta le lodi dei perdenti dell’era del muto
Un requiem per il cinema, tra droga, sesso e ortodossia
È davvero difficile parlare di Babylon, perché il nuovo film di Damien Chazelle è fallimentare in tanti sensi, ma così ricolmo di energia caotica e idee appena sbozzate in cui risplendono diamanti che si è storditi dall’infinita possibilità di tagli che si potrebbero dare alla recensione che lo racconta.
Celebrarlo, affossarlo, minimizzare a riguardo: è tutto possibile quando si parla dell’ennesimo film del 2022 che si configura come una “lettera d’amore al cinema”, sintomo che persino dentro Hollywood aleggia la consapevolezza che un’epoca è agli sgoccioli e che forse Babylon è già l’ultimo film del suo genere: grandioso, esagerato, sfrontato, eppure trattenuto e sottosviluppato dagli stessi paletti che Hollywood dà, anche ai suoi talenti più promettenti.
Due meriti gli vanno dati, anche a fronte dei suoi tanti, storpianti difetti: le sue tre ore volano via come un’allucinazione febbrile ed è impossibile non ammirare la sfrontatezza con cui rischia, nel 2022, di fare un film tutto sbagliato perché tutto cuore e ambizione. Esattamente il contrario di quella che era stata la consacrazione di Chazelle: La La Land.
La morte è la vera protagonista di Babylon
Babylon fotografa l’ultimo, sensuale afflato di vita dell’era primigenia del cinema: quella dei film muti e della Hollywood ancora di frontiera, in cui il sistema degli studios (e gli edifici stessi da cui prende il nome) erano ancora di à da venire e costruire. Il film è episodico, diviso in lunghi episodi che con la vera Hollywood del cinema muto hanno pochissimo a che fare, a partire da costumi e trucco che fanno sembrare Margot Robbie la bionda di fuoco di un film di Paul Verhoeven degli anni ‘80 e non una seducente starlette degli anni ‘20.
Babylon però non si presenta mai come “una storia vera”, pur pescando a piene mani dai film dell’epoca e da quelli che hanno costruito il lessico e la grammatica di tutto il cinema successivo. Soprattutto da quello che ha poi raccontato al pubblico quell’epoca, ripulendola e narrandola dalla parte dei vincitori. Cantando sotto la pioggia, il paradigma attraverso cui Hollywood ha raccontato la sua prima crisi, quindi viene preso e fatto a pezzi, cantando come veri eroi i perdenti di quell’epoca, ridicolizzati nel classico del musical di Stanley Donen (di cui è caldamente consigliata la visione prima di affrontare il nuovo Chazelle).
In tanti - detrattori e ammiratori - hanno descritto questo film come decadente e sì, Babylon è tutto lì. Una celebrazione sudata, caotica e dorata della progressiva diminuzione di vitalità e di efficienza del cinema degli esordi, fagocitato da un sistema industriale che prese il sopravvento con l’arrivo del sonoro. Nonostante i suoi toni brillanti e i suoi eccessi, è un film tragico, che ha come risposta solo la morte: quella del cinema muto, quella di una certa liberalità di costumi, persino quella di molti personaggi. Un punto d’arrivo così nero e angosciante che persino Chazelle si premura di darne una visione ultraterrena, religiosa, di regalare un’eternità ai suoi protagonisti: un’illusione a cui si arrende anche lui, dopo essere sceso all’inferno, dove sembra risiedere la vera anima di Hollywood.
Babylon: la trama
Babylon si apre nel 1926 con un party sfrenato a casa di un ricco produttore in cui s’imbuca una giovane donna bellissima, disinibita e strafatta di cocaina: Nellie LeRoy (Margot Robbie) è assolutamente convinta di essere una star a cui manca solo una chance per dimostrarlo.
Manuel (Diego Calva) è un immigrato messicano particolarmente versato a risolvere le situazioni folli in cui s’infilano gli organizzatori di questi baccanali, ma sogna di arrivare sul set, calato com’è in un mondo in cui la gente è disposta a dare la vita (letteralmente) per stare “nel posto più magico che esista”. Parola di Jack Conrad, un Brad Pitt calato nei panni di un Clark Gable del muto più innamorato del cinema che delle sue mogli.
Nellie e Conrad saranno i cardini attorno a cui girerà la vita di Manuel, che entrerà nel mondo del cinema e farà pian piano carriera, vedendo da vicino l’energia dionisiaca a pagana su cui è fondato l’impero del muto. In una New York piovosa e grigissima vedrà, nel 1927, l’iceberg contro cui si sta per scontrare il suo mondo: l’introduzione del sonoro.
Da brillante racconto di una Hollywood tanto disorganizzata e affidata al caso quanto creativa, Babylon nella sua seconda parte diventa la tragedia di quanti verranno epurati dalla stessa una volta che la sua energia pagana diventerà una liturgia basata sulla rispettabilità e sul profitto, oltre a quella di quanti da quella prima, orgiastica festa non sono mai usciti davvero: Nellie e Conrad.
Babylon si pone le domande sbagliate
Babylon è una copia a carbone della sua stessa trama e dei suoi personaggi, con tutti i loro pregi e difetti. Come i suoi protagonisti ha un approccio sopra le righe e sfrontatamente eccessivo, ma nella seconda parte è agonizzante, fiaccato da una serie di lungaggini riuscite ma non necessario (il lungo episodio lynchiano con un sulfureo Toby Maguire) o da parantesi che sui social si liquiderebbero con un “che cringe” (la scena del tappeto con una Nellie “ripulita” e posh).
Come ode al fervore creativo e immaginifico di un certo cinema degli albori è straordinario: lo spezzone della lunga giornata alternata tra il set in cui Jack gira una scena strepitosa e Nellie rivela il suo incredibile talento con una singola, straziante lacrima è uno dei passaggi più belli visti quest’anno al cinema, un tripudio di regia carismatica, montaggio dinamico, musiche strepitose (che rimarranno tali per tutto il film) e interpreti ispirati. Quando però arriva a raccontare l’inadeguatezza dei suoi protagonisti in un cinema che cambia**, si rivela tragicamente inadeguato** a sua volta.
Babylon per certi versi è molto più straziante da vedere nel 2022, in un anno in cui si gioisce di qualsiasi film (per quanto orrendo sia) che sfonda al botteghino, perché così è ridotta la salute del cinema vissuto in sala, con un fosco futuro di fronte a sé. Il mondo dello streaming stesso vive un momento di profondissima crisi, potrà dunque garantire la sopravvivenza del cinema, anche se in altre forme? A queste angoscianti domande Chazelle non solo non ha risposta da trasfigurare nel suo film, ma peggio, non si pone nemmeno le domande corrette.
I suoi personaggi e le sue situazioni sono tratti dagli archetipi stessi del cinema quando narra sé stesso, eppure Damien Chazelle, da cinefilo nerd qual è, fatica a tirarli fuori di stereotipo e farli suoi. Il personaggio di Calva è poco più di una bambola impagliata, un proxy del pubblico guidato dal puro, incomprensibile amore per Nellie. Sexy sì, ma privo di un carattere suo. Un errore antico, mischiato a imbarazzanti derive moderne, vedi i personaggi POC (people of colour, da definizione corrente statunitense).
A Hollywood oggi solo i bianchi possono sbagliare
Si è passati da una rappresentazione razzista o inesistente all’incapacità di far uscire i personaggi non bianchi da un’aura di santità che li rende scarsamente rilevanti e noiosissimi. Jovan Adepo ha per le mani un personaggio con una sola scena rilevante, anticipata e seguita da una serie sensazionale e incomprensibile di scelte sempre giuste, guidate quasi da precognizione. Ancor più scandaloso è il poco spazio dato a Li Jun Li, con un personaggio potenzialmente esplosivo (e che comunque attira l’attenzione) ma messo brutalmente da parte perché se una donna asiatica non può che essere ritratta in una luce positiva, cosa può fare in una depravata Hollywood a parte essere messa da parte?
Brad Pitt e Margot Robbie, in quanto bianchi, fanno la parte del leone, per una beffarda ironia del destino. Rimangono comunque loro i bianchissimi protagonisti, perché sono gli unici a cui ormai è consentito sbagliare ed essere distruttivi. Margot Robbie in questo film rischia più volte la parodia del suo ruolo tipo, ma ci mette l’anima, si butta così avventatamente a capofitto nel “cattivo gusto e nella pura magia” della sua Nellie, anche nelle sue derive “quasi pornografiche da animale ferale” che si crede a tutto, attirati dalla sua energia distruttiva e dalla sua malia innegabile.
Brad Pitt qui fa un buon lavoro, ma a rendere tragico e significativo il suo Jack è soprattutto il fatto che ci sia Pitt a dargli le fattezze: Jack è già leggenda, ma fatica ad accettare che il suo tempo sia finito, o quantomeno quello di un certo cinema di cui era una star. Questo ruolo, oggi, potrebbero interpretarlo giusto lui o Leonardo DiCaprio, ma Pitt a differenza del collega è più versato a scelte smitizzanti e rischiose. Probabilmente gli è bastato mostrare un po’ dei suoi veri sentimenti per far funzionare Jack.
Babylon è l’anti La La Land
Chazelle quindi riesce a disarmarsi da solo, pur avendo quasi carta bianca e la potenza di fuoco di 80 milioni di dollari per un progetto assolutamente folle, e visto dal 2023, palesemente destinato al fallimento. Nel 2022 gli spettatori ci hanno detto in tutti i modi (soprattutto non andando al cinema) che non sono interessati a sentirsi raccontare storie d’amore per il cinema sedendosi al cinema: le recupereranno con comodo in streaming. Ce lo avevano già detto nel 2021 con Mank di David Fincher, che condivide tantissimo a livello storico con Babylon, pur muovendosi in direzione opposta. Il padrino di Babylon è piuttosto The Wolf of Wall Street, un film che ha lanciato la sua stella e di cui fatichiamo a comprendere l’impatto innegabile che ha avuto sul racconto degli eccessi a Hollywood.
Eccessi che, a ben vedere, Chazelle ritrae ma lascia sullo sfondo. Forse, con un filo di malizia, perché le sue star non erano disposte a spogliarsi per la causa perché d’accordo il dramma, ma certi feticismi lasciamoli al cinema europeo coi sottotitoli. Eppure c’è qualcosa meraviglioso in Nellie, che è un’allusione sessuale ambulante, coperta di succinti e scenografici straccetti eppure inarrivabile, intoccabile: il suo bacio vale una discesa all’inferno ma toccarla, dopo tre ore di calvario, la manda in pezzi, come nella migliore tradizione della mitologia pre-cristiana.
La caduta di Babylon nella seconda parte del film, l’incapacità di fare a meno di tanti eccessi per concentrarsi invece su ottime premesse che rimangono tali o diamanti grezzi mai liberati dallo sporco che li trattiene, non rende meno sfavillante ciò che funziona nella sua prima parte. Bisogna prenderlo così com’è: come un racconto mitologico di Hollywood altrettanto costruito di La La Land, che ne è il doppio caotico e senza freni, fatto tutto di cuore e di pancia. Una favola nera dopo una favola rassicurante e solo fintamente triste, che i demoni veri nemmeno li guardava in faccia. Babylon invece si fa investire da tutto: sangue, sessi, piscio, merda, montagne di cocaina e violenza. Tutto, pur di anestetizzare la solitudine umana dei sui personaggi, nella speranza di regalare ancora un’emozione nel buio del cinema.