Back to black, la recensione del film che racconta la vita e la carriera di Amy Winehouse
Arriva al cinema la storia artistica e personale di Amy Winehouse: Marisa Abela diventa volto e corpo della reginetta di Camden Town e del soul. Ecco la recensione di Back to black.
Back to black, è il periodo dei biopic
E dalle parti di Hollywood ci si sforza di trovare sempre nuovi spunti biografici in grado di spingere al cinema gli appassionati di un determinato periodo storico o fermento culturale.
Se poi ci si concentra sui biopic di tipo musicale (sulla scia del successo di pubblico del Bohemian Rapsody del 2018) le arti e le passionalità si contaminano: cinema e musica.
Un mix a cui è impossibile resistere: recensione Back to black
Il tema casomai è porsi nuove chiavi di lettura, cercando di impostare la narrazione in chiave meno didascalica possibile.
Ecco dunque Back to black, il nuovo film diretto da Sam Taylor-Johnson è dedicata al giovane e sfortunato talento di Amy Winehouse.
Non è la prima volta che la settima arte si confronta con la cantante londinese: nel 2016 il documentario Amy di Asif Kapadia si era aggiudicato il Premio Oscar come miglior documentario e sulla sua vita erano stati realizzati anche piccoli film indipendenti su cui è meglio soprassedere.
Il film è tutto impostato per forza di cose sull’interpretazione della giovane protagonista Marisa Abela: è lei il giovane volto e corpo (perennemente tatuato) della reginetta di Camden Town.
E il quartiere ad est di Londra risulta essere fondamentale anche nella chiave di lettura che lo sceneggiatore Matt Greenhalgh ha voluto dare per un’opera cinematografica che si pone la doppia sfida di narrare una vita intensa quanto terribilmente breve.
Amy infatti è l’artista “ribelle” per antonomasia.
Ma quando parliamo di “ribelle” non lo si intende nel suo risvolto sociale (del tutto assente nel film), ma prettamente artistico.
È quello che ci dice Back to black, è quello che esce dalla bocca della giovane Amy.
Sin da piccolissima Amy è chiaramente un talento, appena ventenne manda al diavolo le varie case discografiche e nel periodo della New Britain di marca blairiana (quasi più una moda che un verso e proprio percorso politico) ci tiene a ribadire che lei non è “la solita Spice Girl”.
Amy è molto di più: ha una voce quasi da artista di colore e dedica brani ed album ai grandi crooner del passato (Tony Bennett, oltre che ovviamente Sinatra, ha un ruolo fondamentale nella narrazione).
Vive per il jazz, ma riconosce allo stesso tempo che solo “i malati amano il jazz”.
In questa sua apparente antistoricità ed anacronismo c’è la grandezza dell’artista, ci dice Sam Taylor-Johnson.
La grandezza di un’artista che andando contro mode e stereotipi spicca nella sua unicità, non realizza brani e canzoni per vendere ma per “non fare altro” e che trova nei tatuaggi ed in (certa) droga l’unico antidoto verso presunti legami familiari non prettamente assorbiti (la separazione dei genitori) ed una nonna fondamentale nel suo sviluppo di crescita.
È forse questo il principale insegnamento che ci consegna Back to black: mettere in luce le ragioni di un malessere artistico che per l’artista londinese si era in primo luogo manifestato nell’uso di sostanze stupefacenti ed in incontri sbagliato (come quello col suo ex marito Blake).
Amy Winehouse non va confusa per una qualsiasi rappresentante della Babilonia dello Show System con autodistruzione annessa. Ma come performer tormentata, controcorrente e spinta verso il male da un malessere interiore acuto quanto indecifrabile. E che proprio nel momento di una sua potenziale rinascita (in quella terribile estate del 2011) ha visto beffardamente la sua conclusione.
Triste, solitaria e finale.