Beetlejuice Beetlejuice, recensione: Tim Burton ha imparato la lezione di Mercoledì e apre alla grande la Mostra di Venezia

Un Tim Burton più brillante delle attese torna a rinverdire i fasti di Beetlejuice con un film che è palesemente figlio della serie Netflix Mercoledì ma che riesce a divertire.

di Elisa Giudici

La lezione di Mercoledì è davvero servita a Tim Burton. O forse è stata la fine del lungo matrimonio con Helena Bonham Carter e l’arrivo al suo fianco di Monica Bellucci nelle doppie vesti di compagna e musa a dare una nuova sferzata d’energia a un regista che, negli ultimi anni, non aveva mai centrato davvero un film riuscito. Dumbo, Big Eyes, Miss Peregine, Dark Shadows: tutte le sue prove più recenti davano l’impressione di un’artista che guarda al suo passato e lo ricrea al netto dell’ispirazione e del trasporto emotivo di quando quelle stesse atmosfere gotiche, quelle medesime pose introverse e strambe lo rendevano uno dei registi più popolari e amati al mondo. Compitini portati a termine con il minimo coinvolgimento e impegno necessario.

Dopo è arrivata la parentesi seriale con la prima stagione di Mercoledì, titolo Netflix dedicato agli adolescenti con protagonista Jenna Ortega nei panni della rampolla degli Addams. Impossibile non pensare all’influenza di questa esperienza quando Burton ci riporta a Winter River, la cittadina e il modellino nell’attico dei coniugi fantasmi Maitland. Non solo perché in questo Beetlejuice Beetlejuice, che arriva 36 anni dopo il primo capitolo, c’è proprio Jenna Ortega tra le protagoniste.

Da Beetlejuice a Beetlejuice Beetlejuice

Correva l’anno 1988 quando il giovane Burton ultimava le riprese del suo secondo lavoro da regista, Beetlejuice - Spirito porcello, una storia frizzante e irriverente di moderni fantasmi e bizzarre relazioni romantiche che, a dispetto di aspettative e apparenze, si rivelavano molto solide.

Nel primo film la giovanissima Winona Ryder interpreta Lydia Deetz, un’adolescente capace di vedere i due gentili coniugi fantasmi che infestava la casa di Winter River che i suoi genitori Delia e Charles hanno deciso di affittare per fuggire dal caos di New York.

Tre decenni dopo viene da chiedersi dove sia finita quella “piccola ragazza gotica che dava il tormento” alla madre adottiva Delia (Catherine O'Hara). Lydia è diventata adulta e ha deciso di “vendere” il suo talento da sensitiva.Conduce un programma sul paranormale dedicato intitolato Ghost House, Lydia ha perso sé stessa. Vive una relazione di co-dipendenza con un uomo che ha mire tutt’altro che romantiche, mentre la figlia Astrid (Jenna Ortega) le fa espiare quanto fatto patire a Delia anni prima, sostenendo sia un’imbrogliona che finge di vedere gli spiriti.

Lydia è dipendente dagli ansiolitici, una donna poco ispirata, perduta. L’unica costante della sua vita sono i look gotici, ma la verve e la sicurezza in sé di un tempo si sono tramutate in un timore e un’indecisione paralizzanti. Nonostante con Delia si sia creato un rapporto di complicità, dalla morte del padre di Astrid la donna non riesce a essere felice. L’improvvisa scomparsa di un altro familiare dà il via a una catena di eventi che riporta le tre donne Deetz (Delia, Lydia, Astrid) nella casa degli ex coniugi fantasmi Maitland.

Ciò che non si era riusciti a fare in un intero film - liberare l’abitazione dai suoi fantasmi - riesce con appena una battuta al suo sequel. Beetlejuice Beetlejuice taglia con decisione i rami che considera morti della pellicola di cui è figlio, puntando sui nuovi ingressi nel cast e sui ritorni più convinti.

Michael Keaton e Catherine O'Hara tornano ai propri personaggi burtoniani con grande entusiasmo

In primis Michael Keaton nei panni del protagonista nominale della storia. Nel primo film, curiosamente, il suo “spirito porcello” appariva in appena una manciata di scene. Stavolta invece è a tutti gli effetti un protagonista a cui Lydia si dimostra legata e che fornisce una serie di momenti canori e comici spassosi. Con l’ausilio dell’attore Stefano Marchetti e grazie a un cameo azzeccato di Danny DeVito, Keaton si lancia in un lungo monologo in italiano, canta Right Here Waiting di Richard Marx a Lydia, che non riuscì a sposare anni prima ma che continua a voler conquistare. Proclamandosi “un’amante delle scene oniriche” (dettaglio da ricordare nel finale) torna a vivere la sua fantasia primigenia: quella di sposare Lydia di rosso vestita, in un matrimonio horror da favola.

Dovrà però contenere la sete di vendetta di una nuova sposa cadavere burtoniana: Delores (Monica Bellucci), una bellissima donna il cui corpo fatto a pezzi viene rimesso insieme dalla stessa con l’ausilio di una pistola sparapunti. Bellucci in veste di femme fatale (letterale) e succhia anime appare pochissim e forse per questo funziona il giusto.

Ben più brillante e presente è Catherine O'Hara, tanto che a tratti la protagonista del film sembra lei. Trent’anni fa era una quasi villain, oggi è il personaggio tragicomico che fa da grillo parlante a Lydia e da guida alla nipote Astrid.

Jenna Ortega interpreta la figlia di Winona Ryder ma ricorda (troppo) Mercoledì

Jenna Ortega invece è intrappolata in una storia di amori e strafottenze adolescenziali che ricorda tantissimo proprio quella di Mercoledì. È proprio seguendo l’evoluzione del suo personaggio che s’intuisce come dietro a questa sceneggiatura ci siano Miles Millar e Alfred Gough, gli autori della serie Netflix. I due riescono ad azzeccare un paio di colpi di scena ben congegnati e in generale il film è ben costruito a livello di narrazione, tant’è che nel finale risuonano sibilline molte battute di Beetlejuice (”amo le sequenze oniriche”). I remake degli ultimi anni ci hanno abituati a scritture più pigre, dalla logica ben più lasca. Talvolta però Millar e Gough prendono un po’ troppo ispirazione da sé stessi,ripetendo papale papale quanto fatto nella serie Netflix e scatenando un fortissimo déjà vu allo spettatore.

Burton ha voluto mantenere fede all’approccio visivo dell’originale inserendo sequenze animate, mostri creati con costumi e prop, non morti dalle fattezze e fatture deliziosamente retrò. Sanno più di omaggio, sono meno organici del passato rispetto alla narrazione, ma aiutano a restituire l’atmosfera di un tempo. Ovviamente gli effetti visivi che animano i vermi della sabbia burtoniani sono assai pià efficaci. Anche perché il caso ha voluto che questa rielaborazione ironica di Dune torni in sala proprio nel momento in cui il pubblico è particolarmente ricettivo e coinvolto rispetto ai riferimenti ad Arrakis e all’opera di Frank Herbert.

Come è cambiato Tim Burton

Il confronto più interessante però è quello tra il Burton del passato remoto quello del passato recente e del recente.Una volta Lydia e le sue derive da adolescente nerovestita “sono stramba e fiera di esserlo” sembravano essere diretta emanazione del cineasta. Burton invece oggi sembra più a suo agio con le frecciate di Delia o i doppi sensi “da provolone” di Beetlejuice. Forse in questo film l’atmosfera gotica del passato rivive con una certa giocosità perché il suo creatore non vive (più) il dover tornare su quanto fatto nel passato come un’imposizione. Questo film è più ispirato e vivace dei suoi ultimi lungometraggi perché il regista vive in maniera più serena e distaccata il rapporto con quello che c’è dietro la facciata gotica del duo cinema. C’è meno trasporto e più serenità rispetto al desiderio di un legame sentimentale profondo e oltre le convenzioni, a una curiosità mai nascosta verso la morte e ovviamente all’idea che la solitudine si combatta costruendo un rapporto umano duraturo tra anime affini.

In Beetlejuice Beetlejuice quella certa morbosa ironia verso il suicidio e la morte è mutata, evoluta, cresciuta. Le priorità e forse i valori stessi del suo cineasta sono cambiati e puntano altrove. La pellicola nel suo passaggio più spregiudicato si spinge a suggerire l’idea che Beetlejuice forse è davvero l’anima gemella di Lydia, che lei interpella nei momenti del bisogno, che sente sempre vicina, nonostante tutto. Alla prova dei fatti però è un film connesso alle priorità del cinema contemporaneo: mette sul piatto tre generazioni donne straordinarie che si sostengono a vicenda quando le loro metà maschili vengono a mancare (o tentano di farle passare a miglior vita).