Blackhat
di
Valerio De Vittorio
Michael Mann é un regista atipico, unico, di quelli che basta un'inquadratura proiettata sul megaschermo per riconoscerlo. Con Black Hat il mago della cinepresa digitale si avventura nel campo del cyber terrorismo con grande cura per il dettaglio nel descrivere questo mondo sconosciuto ai più, un occhio estetico meraviglioso e totale noncuranza per le regole più basiche della narrativa.
Una centrale nucleare di Hong Kong viene devastata da un attacco terroristico. Nessuna bomba o attentato, ma una calcolata e meticolosa infiltrazione informatica, che ci viene illustrata attraverso una spettacolare sequenza iniziale che ci fa quasi sentire degli impulsi elettrici in viaggio fra i transistor e le connessioni dei computer. Iniziata la proiezione, Michael Mann ci ha subito inghiottiti nel suo thriller, che vede il comandante Dawai, in forze presso il governo cinese, convincere i suoi superiori che per trovare il colpevole é necessaria la collaborazione con l'FBI.
I federali americani, infatti, vittime di un altro tipo di attacco ma portato a segno del medesimo terrorista, hanno in mano informazioni e porzioni di codice che possono servire a rintracciare il colpevole. Giunto negli USA Dawai convince l'FBI che il loro team ha bisogno di Nick Hathaway (Chris Hemsworth), un hacker condannato a 15 anni di carcere. Ovviamente i federali accettano, e così ci ritroviamo con un team pronto per la caccia. La pellicola si districa così tra indagini, alcune (in realtà poche) sequenze d'azione e lunghi momenti di pausa dedicati ai personaggi.
Black Hat é per certi versi l'estremizzazione dello stile tipico di Mann, una sorta di fotomodella cinematografica, bella ma stupida. Il film é tanto bello da vedere quanto assurdo e superficiale nella sua componente narrativa. La sceneggiatura si disinteressa molto presto di dare un filo logico agli eventi, i quali da un certo punto in avanti sembrano susseguirsi più per dare spazio all'estro creativo del regista che non per coinvolgere a livello emotivo lo spettatore. Ed é un peccato, perché il cast é variegato ed interessante, come la bella Wei Tang o la sempre carismatica Viola Davis, così come l'intreccio offre degli spunti molto validi. Ma é evidente che a Mann non interessa costruire un eroe credibile, preferendo l'esagerazione e sagome quasi epiche.
Lo spettatore si ritrova così a dover accettare situazioni paradossali, che cozzano con il contesto realistico e credibile della trama, un hacker che spara meglio di un sicario professionista o poliziotti che si immolano in una sparatoria senza preoccuparsi di trovare copertura, giusto per citare due esempi. Per non parlare della relazione tra il protagonista e Chen, che nasce con un'attrazione ed una tensione ben ricreati sul grande schermo, matura ed intrigante, ma che si trasforma nella storia d'amore del secolo in manco due giorni, rovinando tutto. Il personaggio di Wei Tang viene poi tratteggiato con grande superficialità.
Viene coinvolto nelle vicende perché il fratello Dawai la vuole con sé a tutti costi, ma per tutto il film non fa praticamente nulla, tranne seguire gli altri. Black Hat non é quindi una pellicola che si regge sulla narrativa, che ribadiamo, non interessa al regista. Quello che a Michael Mann viene bene é catturare con la sua videocamera digitale gli ambienti metropolitani, una Hong Kong spettacolare, ma non solo. La sequenza finale é memorabile nella sua eleganza, quanto purtroppo poco giustificabile a livello narrativo. Un binomio che prosegue per tutta la pellicola, disturbando il godimento dello spettatore. La cosiddetta sospensione dell'incredulità viene messa troppo alla prova perché Black Hat si possa definire un film riuscito.
L'ultimo aspetto poco convincente é proprio il protagonista. Chris Hemsworth é bravo e sa giocarsela anche in un ruolo poco da divo, ma é troppo bello ed appariscente per essere credibile nei panni di un hacker appena uscito di prigione. Qualche trucco per mascherarne i lineamenti da fotomodello non avrebbe guastato.
Made in China
Una centrale nucleare di Hong Kong viene devastata da un attacco terroristico. Nessuna bomba o attentato, ma una calcolata e meticolosa infiltrazione informatica, che ci viene illustrata attraverso una spettacolare sequenza iniziale che ci fa quasi sentire degli impulsi elettrici in viaggio fra i transistor e le connessioni dei computer. Iniziata la proiezione, Michael Mann ci ha subito inghiottiti nel suo thriller, che vede il comandante Dawai, in forze presso il governo cinese, convincere i suoi superiori che per trovare il colpevole é necessaria la collaborazione con l'FBI.
I federali americani, infatti, vittime di un altro tipo di attacco ma portato a segno del medesimo terrorista, hanno in mano informazioni e porzioni di codice che possono servire a rintracciare il colpevole. Giunto negli USA Dawai convince l'FBI che il loro team ha bisogno di Nick Hathaway (Chris Hemsworth), un hacker condannato a 15 anni di carcere. Ovviamente i federali accettano, e così ci ritroviamo con un team pronto per la caccia. La pellicola si districa così tra indagini, alcune (in realtà poche) sequenze d'azione e lunghi momenti di pausa dedicati ai personaggi.
Uno spettacolo digitale
Black Hat é per certi versi l'estremizzazione dello stile tipico di Mann, una sorta di fotomodella cinematografica, bella ma stupida. Il film é tanto bello da vedere quanto assurdo e superficiale nella sua componente narrativa. La sceneggiatura si disinteressa molto presto di dare un filo logico agli eventi, i quali da un certo punto in avanti sembrano susseguirsi più per dare spazio all'estro creativo del regista che non per coinvolgere a livello emotivo lo spettatore. Ed é un peccato, perché il cast é variegato ed interessante, come la bella Wei Tang o la sempre carismatica Viola Davis, così come l'intreccio offre degli spunti molto validi. Ma é evidente che a Mann non interessa costruire un eroe credibile, preferendo l'esagerazione e sagome quasi epiche.
Lo spettatore si ritrova così a dover accettare situazioni paradossali, che cozzano con il contesto realistico e credibile della trama, un hacker che spara meglio di un sicario professionista o poliziotti che si immolano in una sparatoria senza preoccuparsi di trovare copertura, giusto per citare due esempi. Per non parlare della relazione tra il protagonista e Chen, che nasce con un'attrazione ed una tensione ben ricreati sul grande schermo, matura ed intrigante, ma che si trasforma nella storia d'amore del secolo in manco due giorni, rovinando tutto. Il personaggio di Wei Tang viene poi tratteggiato con grande superficialità.
Viene coinvolto nelle vicende perché il fratello Dawai la vuole con sé a tutti costi, ma per tutto il film non fa praticamente nulla, tranne seguire gli altri. Black Hat non é quindi una pellicola che si regge sulla narrativa, che ribadiamo, non interessa al regista. Quello che a Michael Mann viene bene é catturare con la sua videocamera digitale gli ambienti metropolitani, una Hong Kong spettacolare, ma non solo. La sequenza finale é memorabile nella sua eleganza, quanto purtroppo poco giustificabile a livello narrativo. Un binomio che prosegue per tutta la pellicola, disturbando il godimento dello spettatore. La cosiddetta sospensione dell'incredulità viene messa troppo alla prova perché Black Hat si possa definire un film riuscito.
L'ultimo aspetto poco convincente é proprio il protagonista. Chris Hemsworth é bravo e sa giocarsela anche in un ruolo poco da divo, ma é troppo bello ed appariscente per essere credibile nei panni di un hacker appena uscito di prigione. Qualche trucco per mascherarne i lineamenti da fotomodello non avrebbe guastato.