BlacKkKlansman

Era dai tempi di Inside Man che non si vedeva uno Spike Lee così brillante. Una mano e una penna in grado di realizzare un prodotto focalizzato sul commerciale, ma con quel retrogusto tipico del regista di Atlanta che attraverso i suoi dialoghi sa dove andare a colpire.

Una critica che si concretizza forse sul finale della pellicola, in cui i ficcanti rimandi all’attuale amministrazione americana si fanno meno fumosi e facilmente distinguibili. Una mossa d'accusa e una sfacciataggine meno dirette di quelle viste ad esempio in Bamboozled o Chi-ra, ma in grado di raccontare gli errori di coloro che hanno permesso a rigurgiti razziali di tornare alla luce, incolpando chi di dovere ( Trump, per essere ancora più precisi).

UNO SPIKE LEE LUCIDISSIMO

Per raccontare l’oggi, Lee sceglie il passato, più precisamente gli anni ’70. Ron Sattworth (John David Washington) è un poliziotto di colore arruolato al dipartimento di Colorado Springs. La sua ispirazione è quella tipica di chi vuole dimostrare di meritarsi quel posto, di essere una pedina tutt’altro che inutile nello scacchiere politico e sociale dell’epoca.

Evitatata una mansione nel ben poco entusiasmante archivio del commissariato, viene allocato all’interno dell’intelligence, luogo apparentemente ancora più tranquillo. La chiave di volta è un annuncio da parte del Ku Klux Klan su un giornale locale. Sul momento Ron fa la scelta più inaspettata: chiama, un dialogo da botta e risposta e si ritrova dentro il gruppo razziale guidato da David Duke ( Throper Grace). Nel gruppo però lui non ci può fisicamente inserire, ed è qui che entra in scena Flip Zimmerman (Adam Driver) collega non particolarmente sveglio, bianco e di origini ebree, che lui stesso non ama enfatizzare.

Da questa base narrativa si sviluppa una pellicola che riporta finalmente Lee dove deva stare, tra coloro che sanno scrivere e dirigere un film in maniera brillante, arguta e dai sottili doppi sensi. Questo è di fatto BlacKkKlansman, un film che sfrutta gli archetipi del poliziesco anni ’70, aggiungendo una serie di elementi che rimando ad altri generi piuttosto precisi.

In alcuni passaggi si assapora quella vena da black comedy cinica tipica dei fratelli Coen (anche loro, spesso e volentieri abili nell'utilizzare lo sfondo razziale come elemento principale del racconto); è innegabile il rimando al genere della Blaxploitation con citazioni cristalline e riconoscibili, così come elementi che Shane Black ha saputo rendere unici nei suoi buddy cop movie.

In tutto questo la mano di Lee è però onnisciente, percepibile in ogni riga di dialogo che riesce, anche con battute provocatorie, ad avere un rimando politico: a volte palese, altre più celato. D’altronde se da una parte c'è una immagine stereotipa e quasi caricaturale della setta razzista, dall'altra, seguendo l’arco narrativo che vede protagonisti Ron e una ragazza attivista dei diritti, Lee sembra non voler dare eccessivi toni pomposi e salvifici al movimento, quasi - provocatoriamente - a voler stigmatizzare un movimento che ricorda quello delle Black Panther.

Ma la cosa che oggettivamente più sorprende è che, in un film così ricco di parallelismi tra l’America di ieri e quella di oggi, e dai risvolti politici tutt’altro che banali, si percepisce in maniera netta un film in grado di intrattenere, di essere a suo modo commerciale sfruttando elementi tipici della commedia. Un film che merita di essere gustato al cinema.