Per Blue Moon tifiamo per i perdenti solo al cinema: la recensione del film con Ethan Hawke e Andrew Scott
I perdenti ci piacciono solo nei film e il nuovo film di Richard Linklater ci spiega perché: la recensione di Blue Moon.

Vedendo Blue Moon non ho potuto fare a meno di ricordate un vecchio film dei fratelli Coen, che rimane a oggi uno dei loro progetti più riusciti e uno dei meno apprezzati dal grande pubblico: A proposito di Davis, che lanciò Oscar Isaac in quella che è ancor oggi la sua interpretazione più incredibile.
In quella pellicola interpretava Llewyn Davis, musicista di enorme talento mai esploso sulla scena statunitense perché arrivato lievemente, tragicamente in anticipo sui tempi rispetto a un artista simile, che invece sarebbe sbarcato in quella stessa Manhattan al momento giusto: Bob Dylan, di cui proprio quest’anno si raccontano gli anni newyorkesi in A Complete Unknown.
Con Blue Moon siamo ancora nella Grande Mela ma nel 1943, in piena Seconda guerra mondiale. Si parla ancora di musica, ma siamo più dalle parti dell’amarezza e della complessità dei Coen che di un film confezionato a puntino per scaldare il cuore dei dylani di ferro, riducendo la complessità (e le parti più controverse) di un personaggio da titolo “inconoscibile” per renderlo accessibile a tutti.
Blue Moon è un biopic musicale su un perdente di successo
Blue Moon riflette proprio su questo: sul bivio che attende ogni artista che si prefigge di dialogare con un pubblico oancor meglio, di trovare un pubblico in prima battuta. È giusto ridurre la complessità emozionale della propria arte per arrivare a una platea più ampia? Il protagonista della pellicola Lorenz Hart (Ethan Hawke) pensa di no e per questo detesta l’ultima opera del suo ex collaboratore, il compositore Richard Rodgers (Andrew Scott). Solo che è lui a essere il perdente, il Llevwyn Davis della situazione: pur avendo conosciuto un enorme successo con il suo corpus di canzoni, è già dalla parte sbagliata della storia. È acuto abbastanza da sospettarlo, pensa di essere già pronto al peggio: solo che ancora non sa ancora quanto peggio andrà rispetto alle sue previsioni.
Blue Moon è il titolo del biopic dedicato al celebre paroliere di una cinquantina di spettacoli teatrali e di hit come My Funny Valentine e The Lady is a Tramp. Per raccontarlo, Linklater lavora di fino e da distanza ravvicinata. Fa tutto in piccolo, creando un biopic che è un microcosmo: basso il budget, ridotto il minutaggio (100 minuti), lo spazio e il tempo ristretti al minimo. Il film infatti si svolge quasi tutto da Fardi’s, un locale newyorkese alle cui pareti il ritratto di Hart è appena stato allontanato da quello di Rodgers, con cui finora ha lavorato a tutte le sue opere.
È la notte del 31 marzo 1943 e Hart ha appena assistito alla prima trionfale di Oklahoma!, musical che ha rifiutato di scrivere con l’amico. Oscar Hammerstein II ha preso il suo posto e lo prenderà dì a venire, anche nell’immaginario collettivo. Sette mesi dopo, annuncia l’apertura del film, Hart morirà di polmonite dopo essere collassato ubriaco e confuso in un vicoletto.
Il film biografico che lo racconta e celebra fotografa l’inizio della sua rovina, del finale della sua parabola, in una serata ad alto tasso alcolico e di presagi. Hart pensa di aver già passato il peggio: sa che Oklahoma! sarà un trionfo (peggio, farà la storia) e sente che l’amico ora alla ribalta si allontana da lui, rimproverandogli uno stile di vita eccessivo. Ciò che fa davvero male in Blue Moon è come nessuno cerchi di ferire Hart, ma come siano proprio le parole più gentili a dargli il colpo fatale.
Linklater ama la complessità, ma ne vede anche i limiti
Per esempio quelle scelte da Elizabeth (Margaret Qualley) per dirgli che gli vuole bene, ma non nel modo da lui auspicato. D’altronde lei è una splendida ventenne di cui il quasi cinquantenne Hart è invaghito, in barba ai suoi flirt maschili del pasato. Lui ancora spera che, per pietà o per bizza, si conceda a lui. Come in certe notti fatali che tutti viviamo, il film alterna momenti di grande lucidità a continui autoinganni. Scritto a partire dal carteggio tra il compositore 47enne e la giovane studentessa, Blue Moon presenta un protagonista che pensa di aver già assimilato il peggio, invece non ne ha che intuito i contorni, perché essere geni non implica vedere sempre con chiarezza ciò che tutti gli altri intuiscono, ma hanno il tatto di non sottolineare.
Come il film dei fratelli Coen, c’è una riflessione acuta e mai scontata su come ciò che rende geniale un creatore d’arte ad altissimi livelli è quella stessa complessità che lo relega alla nicchia, all’irrilevanza. Non vale solo per Hart, che si ritrova a conversare al bar con White, saggista che di lì a poco conoscerà il successo grazie a Stuart Little, un popolare topolino letterario di un libro per bambini la cui idea qui nasce proprio da un dialogo con Hart. Il protagonista però lo conosce per i saggi che nessuno legge, da amante e alfiere di quel “bello e complesso” che lo pone dalla parte sbagliata della storia.
Linklater, tuttavia, evita il contrasto semplicistico tra complessità e popolarità. Blue Moon non presenta Rodgers come un opportunista, ma come un artista con una visione diversa, altrettanto legittima rispetto a quella di Hart. Rodgers è gentile ma deciso, difende le sue scelte artistiche senza sminuire il suo ex collaboratore. Non è meno intelligente di Hart, ma semplicemente più in sintonia con i gusti del pubblico. In uno dei momenti più ironici del film, entrambi mostrano scetticismo nei confronti di un giovane cantante emergente, la cui crescente popolarità li lascia perplessi. Frank Sinatra, che presto costruirà la sua carriera interpretando proprio le canzoni che loro hanno scritto insieme.
Blue Moon è sperimentale e a basso costo, ma profondamente personale
Probabilmente nemmeno Linklater si aspetta un travolgente successo per un film che racconta una storia musicale di cui anche i vincitori oggi sono ricordi lontani e sbiaditi per molti. La produzione a basso budget e la singola location del bar gli permettono di mettere in piedi un film profondamente personale, scritto splendidamente, cui più che sentire la musica e fare il teatro, se ne parla fino allo sfinimento, quasi come fosse un approccio filosofico alla vita. In un certo senso lo è e Hart, White, Rodgers incarnano differenti scuole di pensiero. La parte più difficile non è individuare la qualità di questa sperimentazione, che risiede soprattutto in un cast capitanato da un Ethan Hawke quasi shakesperiano, circondato da interpreti come Andrew Scott in grado di sostenere i dialoghi ricercati e lunghissimi della pellicola, i movimenti coreografati da una parte all’altra del locale con enorme naturalezza.
La parte più complessa è semmai pensare a un pubblico a cui importi abbastanza di questo tema, di questa musica, da concentrarsi per apprezzare al meglio un film che a sua volta riflette anche sul cinema, sui suoi capolavori (Casablanca viene praticamente dissezionato) e sui suoi limiti (vedi la genesi di Blue Moon, hit cinematografia della carriera di Hart a lui invisa).
Durata: 100'
Nazione: Stati Uniti
Voto
Redazione

Blue Moon
Blue Moon ricorda un po’ Mank di David Fincher: un progetto che indaga la figura di un perdente alcolizzato e che sente altre menti brillanti avanzare, pronte a prendere il suo posto perché più in grado di dialogare con un il pubblico e il presente. Perdente il cui genio però è ben lontano all’essere esaurito, così come i motivi per cui stemperarlo nell’ubriachezza.
In platea però c’è sempre qualcuno che quella complessità continua ad apprezzarla, tanto da volerla a sua volta raccontarla ad altri: gente come Linklater, Fincher. Il problema è poi andare a capire se questi film parlino a qualcuno oltre la nicchia ristretta per cui sembrano concepiti.