Bussano alla porta, recensione: il destino di Shyamalan è quello di dividere
Il regista de Il sesto senso Shyamalan realizza un thriller dai contorni apocalittici e religiosi che sembra in aperta opposizione con Signs ed è destinato a far discutere. La recensione di Bussano alla porta.
Non deve essere facile essere M. Night Shyamalan, un regista perseguitato dal successo di Il sesto senso, un nome che porta le persone al cinema con precisissime aspettative, tanto nette quanto è alto il rischio di deludere quello stesso pubblico. Lo stesso discorso fatto nella recensione di Old, il suo precedente film, può essere ripetuto per Bussano alla porta. C’è sempre un momento, soprattutto quando ci si avvicina al finale dei film di Shyamalan e la risoluzione dei misteri è richiesta o quantomeno attesa, in cui si percepisce tutta il timore, il fastidio e l’irritazione di chi è dietro la cinepresa e, forse più di qualsiasi altro collega, deve fare i conti con le attese del pubblico.
È bene dunque mettere subito in chiaro quanto segue: Bussano alla porta non è un film da cui aspettarsi un colpo di scena spiazzante, anzi. È una pellicola che si apre con un dialogo su cui aleggiano già sinistri foreshadow di ciò che succederà nel finale, che si potrebbe definire inevitabile. Il punto qui non è mantenere il finale segreto fino al suo arrivo, no. Il film non fa mistero della direzione che sta prendendo, anzi: Bussano alla porta ha molto ha che fare con il destino, la predestinazione e in ultima istanza il libero arbitrio degli esseri umani alle prese con la possibilità che esista il Divino e si sia stancato della presenza degli umani sulla terra.
Non è nemmeno un horror in senso lato, pur attingendo al genere, solitamente violentissimo, dei film home invasion, ovvero quelle pellicole in cui estranei sconosciuti ai protagonisti invadono la loro abitazione con intenti sinistri e spesso omicidi. Bussano alla porta è un tentativo molto riuscito (ed esplicitato dallo stesso film nei suoi dialoghi) di ribaltare gli stereotipi del classico home invasion. Sotto altri aspetti invece lascia più perplessi, ma è una pellicola riuscita, capace di generare tensione, ora suggerendo allo spettatore cosa succederà, ora inducendolo a chiedersi cosa sia davvero successo.
Continua a leggere la recensione di Bussano alla porta di M. Night Shyamalan per saperne di più:
- La trama di Bussano alla porta
- Bussano alla porta e l’Apolicalisse
- Il finale di Bussano alla porta
- Bussano alla porta: cosa ci è piaciuto e cosa no
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La trama di Bussano alla porta
Wenling (Kristen Cui) e i suoi due papà hanno deciso di fare una vacanza in Pennsylvania, in un delizioso cottage immerso nei boschi, lontano da tutto e da tutti. All’improvviso appare Leonard (Dave Bautista), un energumeno che si presenta gentilmente alla bimba e che le anticipa quello che sta per succedere.
Poco dopo Leonard e tre sconosciuti bussano alla porta del cottage, spaventando Wen e i suoi due papà. I quattro individui sono armati di strane mazze e chiedono di poter parlare con Eric (Jonathan Groff) e Andrew (Ben Aldridge). Redmond (Rupert Grint) riesce a irrompere nella casa, seguito dagli altri. Gli sconosciuti però non sembrano voler fare del male alla famiglia di Wen.
Leonard spiega che i quattro non si conoscono, ma hanno avuto delle visioni comuni che anticipano la fine del mondo. L’Apocalisse potrà essere evitata solo se, entro un certo periodo di tempo, Wen, Andrew ed Eric uccideranno un membro della loro famiglia, senza coercizione alcuna da parte degli invasori.
Bussano alla porta e l’Apolicalisse
La casa alla fine del mondo è il titolo del romanzo da cui ispirato Bussano alla porta, che ne riprende tutte le sinistre allusioni e i misteri, cambiando però in maniera sostanziale il finale. Molto amato dal re del terrore Stephen King, Bussano alla porta è un libro che mette al centro di una situazione drammatica una famiglia omogenitoriale, tracciando dei chiari parallelismi tra le scelte che impone loro la società e quella che il gruppo di sconosciuti vuole spingerli a prendere.
Difficile non pensare a Signs vedendo questa pellicola, in quanto anche in quel film Shyamalan mescolava il consueto elemento sovrannaturale del suo cinema orrorifico con suggestioni di matrice religiosa. Leonard e gli invasori sono convinti di aver ricevuto da qualche entità sovrannaturale e divina il compito di sottoporre la famiglia di Wen a questa drammatica prova. Andrew invece si dimostra particolarmente scettico, convincendosi che i quattro siano preda di una suggestione autoindotta e alimentata dall’essere rinchiusi in una “camera dell’eco”, un fenomeno psicologico studiato dagli esperti, perfetto per spiegare come persone razionali ma suggestionabili possano vedere un senso altro in una serie di eventi casuali e convincersi a vicenda.
Leonard e gli altri sono davvero i quattro angeli dell’Apocalisse? La famiglia di Wen è solo una delle tante chiamate a sottoporsi a un sacrificio straziante per salvare l’umanità peccatrice? Oppure Andrew a ragione e il gruppo, con malizia oppure in buona fede, sta delirando e costringendo la sua famiglia a una violenza non necessaria? Queste solo le domande che innervano Bussano alla porta e mantengono alta la tensione di quello che, più di ogni altra cosa, è un thriller ben recitato, ristretto negli spazi ma ottimamente ritmato.
Il film in realtà non fa mistero della direzione verso cui si muove, sin dall’inizio, con alcune frasi pronunciate da Wen sui suoi due papà che assumono un nuovo significato man mano che la sua famiglia si rifiuta di compiere il necessario sacrificio, condannando una parte della popolazione mondiale a un terribile giudizio e a tremende piaghe. O almeno, così Leonard sostiene, corroborato dalle notizie del telegiornali. Alludere a un possibile risultato però non priva il film della sua tensione, anzi: di fatto. Bussano alla porta ci interroga continuamente sulla nostra scelta di campo: a ogni nuovo rifiuto chi viene chiesto di valutare con chi schierarci.
Il finale di Bussano alla porta
Come spesso accade nel recente cinema di Shyamalan, è nel finale che le sue storie ottimamente condotte incontrano bruschi intoppi. Rispetto al romanzo, che sceglie una conclusione volutamente ambigua e non risolutiva, Shyamalan sceglie di dare un giudizio molto netto e una risposta chiara su chi avesse ragione.
Oltre che a essere visivamente privo del fascino del resto del film, apparendo affrettato e poco meditato, il segmento finale di Bussano alla porta introduce delle crepe narrative in tutto ciò che veniva prima. Difficile capire perché il film inciampi proprio sul finale. Un’ipotesi che è Shyamalan volesse evitare la scelta più coerente rispetto a quanto da lui diretto in altre circostanze sullo stesso tema. Non è nemmeno una questione di giusto o sbagliato, semplicemente di ben argomentato.
Non si capisce cosa voglia dire davvero Bussano alla porta, specie in un momento come il 2023 in cui distinguere la verità dalla manipolazione è sempre più difficile. Le sette e i culti evangelici stanno influenzando votazioni e schieramenti politici, spesso in direzioni estreme. Shyamalan voleva mostrarci quanto possano essere efficaci certi argomenti su menti liberali, progressiste e razionali, una volta isolate dal loro contesto? L’argomentazione però qui è davvero povera.
Se invece Shyamalan voleva abbracciare il ritorno di un certo fatalismo religioso, di una predestinazione spesso invocata per discolpare l’umanità dalle sue stesse responsabilità e condannarla a un immobilismo catastrofista, beh, non risulta particolarmente ficcante nemmeno in questo senso, a meno di non avere inclinazioni complottiste già in partenza. Le argomentazioni sono talmente semplicistiche e manichee che possono convincere solo chi vuole già credere in una versione data della storia.
Bussano alla porta è il classico film che funziona in quanto intrattenimento cinematografico, che però parla una lingua sconnessa e fa ragionamenti fallaci quando tenta di andare oltre, in una dimensione di commento e critica alla società contemporanea. Anzi, non si difende neppure così bene dall’accusa di giustificare o sobillare certe visioni nostalgiche delle sette millenariste.
Bussano alla porta: cosa ci è piaciuto e cosa no
Viene quasi da chiedere a Shyamalan di farsi scrivere e girare i finali dei film da qualcun’altro, perché il resto di Bussano alla porta è più che buono. Emblematico è il ruolo centrale che la coppia omosessuale gioca nel film: non si tratta di un mero token rappresentativo, non sono lì solo per far dire a Shyamalan “nel mio film ci sono (anche) personaggi gay”.
L’identità queer di Eric e Andrew è assolutamente centrale nella sua specificità nello sviluppo della storia, come chiarito dal flashback sulla loro storia d’amore. Se fossero davvero persuasi che la morte di uno di loro salverebbe il mondo, sarebbero disposti a sacrificarsi per quell’umanità che, sin dall’inizio della loro relazione, li ha aggrediti e costretti a guardarsi le spalle?
La purezza del rapporto tra i tre componenti della famiglia è il cuore narrativo di Bussano alla porta, che si diverte a dare a ogni interprete un ruolo fuori dalle aspettative del pubblico. Dave Bautista gioca con un personaggio dalla gentilezza assoluta, continuamente contrapposta al suo fisico possente e alla sua fisicità minacciosa. Lo stesso accade per Rupert Grint, che si toglie di dosso un po’ dell’indelebile lascito del personaggio di Ron Granger attraverso un ruolo abrasivo.
Ottime sono appunto le interpretazioni dell’intero cast, tra cui spicca quella della piccola Kristen Cui, assoluta esordiente capace di un’ottima performance.
Rating: TBA
Nazione: USA
Voto
Redazione
Bussano alla porta
Shyamalan sbava ancora una volta nel finale un thriller comunque riuscito, che genera autentica tensione e tiene lo spettatore sulle spine, dando anche un ritratto meno stereotipato del solito dell’amore queer. Peccato però non sia altrettanto ficcante sul versante apocalittico alla base di questa storia.