Cake

di Elisa Giudici
Claire Bennett é una quarantenne rancorosa, maleducata e sempre pronta a sfruttare chi le é accanto per lenire il proprio dolore. Un dolore che attraversa il suo corpo, coperto da estese cicatrici, i suoi arti, costretti a goffi movimenti al rallentatore per farla muovere, e la sua psiche, bloccata nel proprio dolore ma troppo spaventata dall'idea della morte per tentare seriamente il suicidio a cui spesso pensa.

Dopo essere stata cacciata persino dal suo gruppo di sostegno per potenziali suicidi, Claire sviluppa una strana ossessione per un ex membro, Nina (Anna Kendrick), una deliziosa moglie californiana che ha preferito buttarsi da un cavalcavia piuttosto che rimanere accanto al marito (Sam Worthington) e al figlio ancora bambino. Mentre la saggia governante Silvana (Adriana Barraza) tenta di porre un freno alla dipendenza della donna da superalcolici e farmaci sedativi, Claire cerca di uscire dal limbo in cui l'ha confinata il dolore, ma sceglie di farlo in maniera anticonvezionale e spregiudicata, consapevole che il pensiero del suicidio le rimane sempre accanto.



Cake é davvero un film figlio dell'anno cinematografico 2014, in cui si é sentita ancora più forte la necessità di grandi attori lasciati in disparte da un'oggettiva scarsità di ruoli variegati e interessanti di trasformarsi in produttori e prendere le redini di piccoli film che ruotano attorno alla loro perfomance da protagonisti assoluti. Dopo le ottime prove di Reese Witherspoon in "Wild" e Jake Gyllenhaal in "Lo Sciacallo", approda anche da noi "Cake", di cui si é fatto un gran parlare per la mancata nomination a Jennifer Aniston agli Oscar 2015.

Si sa: quando un attore veste i panni del produttore in un film che gli ruota tutto attorno, l'intento é quello di stupire e il malcelato desiderio é di strappare un consenso critico tale da aprire la porta a nomination e gloria. Così non é stato per la Aniston, presentatasi con un personaggio con tutti gli stilemi del genere: senza trucco, percorsa da profonde cicatrici, ma soprattutto sgradevole caratterialmente, con una donna agli antipodi dei ruoli che la hanno resa famosa come "la bella e simpatica".



Purtroppo per quanto si sforzi, il film é affossato da una sceneggiatura che non riesce a capitalizzare il forte spunto iniziale. Prendiamo Silvana, la domestica messicana: la povera Adriana Barraza é costretta in un ruolo così stereotipato da essere offensivo, eppure la sua presenza tende a ridimensionare i gravi problemi psicologici della protagonista nell'ambito dei white people problems, quell'atteggiamento viziato e inconcludente che viene spesso rimproverato ai caucasici, tutti presi a ingigantire i problemi microscopici senza rendersi conto del loro approccio dominante nella società (esempio: Claire potrebbe assumere questo atteggiamento se non fosse terribilmente ricca?).

Anche il suolo di Sam Worthington, marito della suicida Nina, potrebbe essere meglio sfruttato, invece si limita ad essere il grazioso sfogo di Claire, un personaggio che alla fin fine gira a vuoto, diviso tra una marea di stimoli (il suicidio, la voglia di riscatto, il dolore, la dipendenza da farmaci, l'incapacità di lasciarsi andare) che la sceneggiatura mette sul piatto senza saperli sfruttare, organizzare coerentemente o risolvere in un finale soddisfacente.