Campo di battaglia, recensione: con Borghi al suo fianco, Gianni Amelio convince più del solito (dialetti esclusi)
Gianni Amelio racconta la guerra senza la guerra in Campo di battaglia, film ambientato nel 1918 con sinistri echi nel presente. La recensione.
Sulla soglia degli 80 anni Gianni Amelio potrebbe limitarsi a raccontare il passato o la nostalgia per altri tempi, i suoi, ormai lontani. Alcuni colleghi coevi ancora in attività lo fanno. Con Campo di battaglia invece il regista dimostra la ferma volontà di dialogare con il più stretto presente e le sue angoscianti derive belliche. Già solo per questo il risultato finale si dimostra più convincente del precedente e fallimentare film Il signore delle formiche. Campo di battaglia però non è un lungometraggio riuscito: convince appieno in avvio (dove dimostra un’inaspettata verve), azzecca alcuni passaggi nelle fasi centrali, ma poi la storia si sfalda e il film e il suo protagonista si chiudono in un’inspiegabile mutismo. Nessuno parla più nel finale, succede poco, ancor meno viene spiegato.
Eppure le sorprese non mancano, anche in positivo. La prima, abbastanza prevedibile, è che mettendo al timone dell’operazione un interprete carismatico come Alessandro Borghi il film scampa in parte il tono elegiaco che i lavori di Amelio tendono ad assumere. L’attore interpreta Giulio, un chirurgo di stanza in un’ospedale militare nel triveneto insieme all’amico e collega Stefano. È il 1918, l’anno della vittoria italiana al photofinish nella Grande Guerra, ma a pochi settimane al trionfo il morale non potrebbe essere più basso tra i soldati feriti e chi li cura. Amelio ci porta tra le corsie e tra i letti, ostinatamente risoluto a non mostrare la guerra direttamente, mettendo sul vetrino del suo microscopio le conseguenze presenti e dell’immediato futuro.
Un Gianni Amelio antibellico racconta un’Italia che non si sente tale
Campo di battaglia racconta infatti le miserie di un’Italia che esiste più come concetto che come fatto, una babilonia di accenti che tra di loro risultano incomprensibili, il patriottismo latitante, le ingiustizie tra classi sociali e ubicazioni regionali tangibili. Giovani ragazzi strappati alle terre da vangare buttati al fronte come carne da macello, uomini che provengono da Calabria, Puglia e Sicilia a cui viene negato ogni congedo perché il pericolo di fuga troppo alto. Le donne prendono parte allo sforzo bellico, ma con un rigido inquadramento gregario, che non tiene conto delle loro abilità. Ci sono già raccomandazioni e ruberie: il protagonista scampa il fronte perché il padre dell’amico mette una buona parola per lui.
Per sfuggire alla morte gli uomini che non hanno le sue stesse conoscenze non esitano ad automutilarsi, nella speranza di essere rispediti a casa. Stefano (Gabriel Montesi) disprezza chi tenta di evitare il fronte, Giulio (Alessandro Borghi) invece segretamente aiuta alcuni soldati a tornare a casa, anche a costo di mutilarli o simularne la malattia con procedure pericolose. Un comportamento che potrebbe costargli la libertà se non la vita, specie quando tra i soldati si diffonde la voce di una “mano santa”.
La spagnola e lo spettro del COVID
Come avveniva in Il signore delle formiche, Campo di battaglia assume un punto di vista contrario e ostile all’inquadramento sociale e istituzionale, raccontando un protagonista dalla morale saldissima, pronto ad affrontare le conseguenze delle proprie scelte. Tratto dal romanzo La sfida (2018) di Carlo Patriarca, il film è costruito sulla tensione creata tra il sentimento fraterno tra Stefano e Giulio e le loro visioni opposte dello sforzo bellico. La fraternità tra i due è tale che - in maniera spiazzante - Gianni Amelio regala la prima vera bromance della Mostra del cinema di quest’anno. Impressione rafforzata dal fatto che il personaggio della studentessa di medicina Anna (Federica Rosellini). Personaggio femminile così mal gestito che non si capisce se finisca per fidanzarsi con uno dei due (e con chi), se sia interessata alla cosa o se anche lei, sotto sotto, tifi per i due amici che si lanciano sguardi languidi quando appurano di essere (e cito) “diversi da loro”, mentre partecipano allo sposalizio malinconico di un soldato che sta per partire per il fronte.
Nella seconda parte il film innesta quello che potrebbe essere un altro film, che traccia un altro parallelo con il presente. Giulio e Stefano infatti si ritrovano ad affrontare le prime avvisaglie della Spagnola, tra mascherine e ospedali stra-colmi di contagiati. Impossibile non pensare alla pandemia del 2020/21, anche se poi il film non si capisce davvero cosa voglia fare di questo arco narrativo. Forse è mancata una mano ferma al montaggio, o forse qualcuno si sia scordato di scrivere una scena chiarificatrice su cosa faccia Giulio in questa parte di film.
Non aiuta il fatto che dopo l’ultimo, teso confronto con Stefano il personaggio si chiuda in un inspiegabile mutismo che non aiuta il ritmo che si fa via via encefalogramma piatto. Certo, considerando la difficoltà con cui Borghi gestisce il suo improbabile accento del nord est (che gli tira fuori una vocetta impostata e acuta per la gran concentrazione necessaria ad atterrare le svolte più dialettali), forse va bene così.