Humandroid

Si fa presto a parlare di fantascienza, specie quando ci si trova davanti al terzo lavoro di un regista come Neill Blomkamp, uno che non si é mai mosso al di fuori dei confini del genere. Dal suo folgorante esordio con District 9 però la science fiction da filone in esaurimento é tornata prepotentemente nei cinema mondiali, sia in forma di blockbuster estivo sia come raffinata metafora di prodotti di stampo autoriale.

Quello che é cambiato dal 2009 sono i problemi scientifici e le innovazioni tecnologiche su cui il cinema sta attualmente riflettendo. Ad essere al centro delle storie di tanti scrittori e sceneggiatori ora é la crescita esponenziale dell'intelligenza artificiale, che ogni giorno ci avvicina sempre di più al punto di non ritorno in cui una macchina sarà in grado di apprendere autonomamente e di superare l'intelligenza di un uomo e, in poco tempo, dell'intera umanità. Trascendence, Automata, exMachina: basta pensarci su per qualche minuto per notare quante pellicole negli mesi abbiano cercato di catturare il momento in cui la macchina supera l'abilità cognitiva del suo creatore.

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Non é fantascienza, non é un se, é solo un quando, tanto che i legislatori più lungimiranti e i grandi del settore come i fondatori di Google si stanno già chiedendo come sarà il mondo quando gli androidi svolgeranno ogni tipo di lavoro meglio, più velocemente e più economicamente di qualsiasi essere umano. Un mondo come quello di Humandroid, in cui robot presettati combattono il crimine per le strade sempre meno violente di Johannesburg, facendo da scudo ai sempre più sparuti poliziotti umani nelle sparatorie.

Ancora una volta al centro della narrazione c'é il momento della nascita dell'essere artificiale con coscienza di sé, un androide su cui é stato istallato clandestinamente un programma sperimentale che gli consente di apprendere proprio come un essere umano, solo che a velocità ben superiore. Finito per sbaglio nelle mani di un gruppo di criminali che sbarcano il lunario nelle periferie della città, Chappie ha cinque giorni di vita davanti a sé prima che la sua batteria si esaurisca per sempre.

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Cinque giorni che traboccano di personaggi e linee narrative che si intrecciano a quello che é sostanzialmente un racconto di formazione classico nel contesto violento del Sud Africa, da sempre ricorrente nel cinema di Blomkamp. Chappie, alla stregua di un protagonista dickensiano, consuma la sua innocenza "artificiale" di bambino in un mondo violento e cupo, ricco di esperienze traumatiche ma anche di relazioni familiari, come quelle che instaura con l'unico membro femminile della gang, la sua "mami". La sua innocenza é spesso contrapposta al mondo degli adulti "umani", con cui il contatto finisce per essere spesso traumatico; sia che si tratti dei cattivi putativi della storia Hugh Jackman e Sigourney Weaver (assolutamente sviliti da due villain ridicoli nella loro cattiveria fuori scala), sia che si tratti dell'ambiguo rapporto con il suo creatore "buono", intepretato da Dev Patel.

Se sulla carta la storia ha consistenza e pathos per creare un gran film, sullo schermo risulta un confuso guazzabuglio di troppi personaggi poco dettagliati, troppe situazioni prevedibili e già viste, ma soprattutto una riflessione sull'intelligenza artificiale troppo cruda per avvalersi della meraviglia alla E.T. ma troppo superficiale per colpire davvero la mente dello spettatore.
Il film si concentra giustamente su Chappie (ancora una volta nelle mani dell'attore feticcio Sharlto Copley), ma senza sacrificare nulla: né le scene d'azione con tanto di sottolineature al rallenti, né i momenti carineria alla WallE, né la critica alla società sudafricana. Incapace di approfondire questi elementi, il film punta sulla più vetusta delle narrative, quella alla Oliver Twist, cercando buttarla sull'emozione e la carineria del tenero androide quando la storia viene messa nell'angolo dalla sua stessa superficialità.

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