Cure arriva nelle sale dopo quasi 30 anni d’attesa, ma rimane inquietante e strepitoso come il primo giorno
Influenzato dai thriller cult di Hollywood anni ‘90, ha a sua volta influenzato generazioni di cineasti: nessuno però come Kiyoshi Kurosawa ha saputo trovare l’inquietudine nella stasi.

Dal 1997 a oggi per Cure si sono spese descrizioni importanti e impegnative, tra cui la temutissima, potentissima “capolavoro”. Il thriller horror di Kiyoshi Kurosawa si muove sicuramente nei territori del cult, perfetto esempio di come il cinema s’influenza, si riflette e si nutre rimbalzando ai quattro angoli del globo.
È il 1990 e il regista giapponese che ha studiato cinema all’università e ha scritto per la critica nipponica ha già militato in svariati generi, cominciando con l’erotico e passando al televisivo e al horror a basso costo. Tra fallimenti al botteghino e quelli economici di produttori con cui collabora, Kurosawa vede pellicole statunitensi di enorme successo come Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme e Seven di David Fincher. Lui però è fermamente convinto che in Giappone non si possa scimmiottare quello che fanno gli statunitensi senza un appropriazione del genere e della storia in questione: d’accordo girare un thriller all’americana, ma il punto è farlo con una prospettiva e mentalità nipponiche.

La genesi di Cure, un cult degli anni '90
Scrive dunque un film profondamente influenzato da quel tipo di thriller esistenzialisti col serial killer che duella con il detective anche a livello morale e spirituale. Nasce così Cure che, nel suo essere giapponese, incrocia una serie di elementi settari (sono gli anni dell’attentato alla metropolitana di Tokyo col gas nervino sarin) e sovrannaturali, in dosi omeopatiche e con un approccio verosimile. Come nei film di Fincher e Demme c’è un detective che intravede in una serie di efferati omicidi commessi a Tokyo una matrice comune. In teoria tutti i delitti hanno un assassino reo confesso, ma nessuno sa spiegare perché abbia agito e perché proprio con quella modalità particolare.
Cure è figlio di queste fascinazioni, ma anche del momento della piena maturità cinematografica di Kurosawa, che qui ha finalmente messo a fuoco i motivi portanti del suo cinema, a partire a un’atmosfera quieta, soffusa, che rende la tensione ancor più palpabile. Laddove i colleghi d’oltreocaeano enfatizzano con regia e montaggio gli omicidi e le morti che si consumano davanti alla cinepresa, Kurosawa le fa accadere spesso a cinepresa ferma, a campo allargato, in un movimento verticale di caduta, silenzioso e disturbante.
Cure è un thriller che sfocia nell’horror esistenziale e che indaga due temi. Il primo è l’amore incrinato da cause esterne, venato di rimorsi e dolore. Il detective protagonista interpretato da Koji Yakusho (Perfect Days, Il terzo omicidio) rimane al fianco della moglie che via via perde il senno ed è consumato dalla di lei fragile salute, ma anche dalla vergogna e dalla frustrazione che questa condizione comporta. È un amore affettuoso e tangibile che diventa sacrificio e poi astio e poi di nuovo tenerezza, in un loop infinito che lo consuma.
L’altro tema è la potenza di un’idea, di un’ideologia, la sua capacità di viaggiare nel tempo, fino quasi a possedere, generazione dopo generazione, i capipopolo che la propagheranno e che le consentiranno di sopravvivere. È un discorso universale applicabile alle religioni, alle sette, e anche alle idee politiche più estreme. Certo il fatto che tutto ruoti attorno a un misterioso “segno a croce” un paio di domande le fa sorgere, specie allo spettatore occidentale.
Kiyoshi Kurosawa lega questa riflessione alla pratica esoterica del mesmerismo, del controllo della mente, facendoci interrogare con progressivo turbamento su quanto la nostra mente sia facilmente malleabile dall’influenza esterna di chi vede i nostri punti deboli, i nostri piccoli rancori ed è in grado di mostrarci come in potenza potremmo essere tutti assassini.

Cure: da subito e ovunque un cult, finalmente nelle sale italiane
Cure venne salutato da subito come un film spartiacque, che segnò un prima e un dopo. soprattutto in patria, favorendo la nascita del J horror. Influenzato da Hollywood, fece il giro e influenzò a sua volta i grandi registi statunitensi di varie generazioni, che da Martin Scorse ad Ari Aster riconoscono nel lavoro del collega una potenza innegabile, una maestria rara.
Tutti film che segnarono quell’epoca del cinema di genere nipponico sono tutti arrivati con grande successo in Italia in un momento in cui i distributori avevano grande attenzione per il cinema del Sol Levante: pellicole rimaste negli annali come The Ring, Audition, Ichi the Killer. Tutti tranne Cure, che venne presentato al pubblico italiano dal solito, salvifico Enrico Ghezzi nelle notti di Fuori Orario, agli iniziati insonni della sua trasmissione. Cure invece acquisì notevole popolarità tra gli amanti del genere e i cinefili più attenti a livello globale, ma non arrivò mai in sala in Italia.
Almeno finora: quasi 30 anni dopo è Double Line a portare in sala Cure, con un’edizione duplice, sia in originale sottotitolata sia con doppiaggio italiano. Interpellato in merito, il responsabile Stefano Gariglio mi spiega: “la nostra distribuzione è da sempre attenta al cinema asiatico e nipponico in particolare. La fama di Cure è rimasta immutata nei decenni. Ci siamo detti che forse era arrivato il momento di provare a colmare questo buco, questa mancanza distributiva italiana. Abbiamo preso contatto con la casa di produzione giapponese, la Kadokawa, per sapere se qualcuno avesse acquisito i diritti per l’Italia. Il film era ancora disponibile per la vendita, i diritti erano disponibili. Abbiamo avviato le trattative ma non abbiamo avuto dubbi: Cure ci è sembrato subito un film meritevole di essere comprato e di essere mostrato nelle sale italiane perché diretto da uno dei registi più importanti e più rappresentativi del cinema contemporaneo giapponese a livello festivaliero e mondiale”.

Voto
Redazione

Cure arriva nelle sale dopo quasi 30 anni d’attesa, ma rimane inquietante e strepitoso come il primo giorno
In occasione della nuova uscita di Cure, ho rivisto la pellicola cult di Kiyoshi Kurosawa. Non è uno di quei film leggendari che vanno contestualizzati nel proprio tempo, di cui vada spiegata la rilevanza nel contesto e nell’epoca in cui vennero realizzati. Cure parla oggi tanto quanto nel 1997, perché si rifà a qualcosa di profondamente disturbante che è proprio dell’essere umano, della sua possibilità di amare e di uccidere. Ciò che invece è ancora difficile da trovare è un film di tensione che trovi l’inquietudine non ne frastuono, nell’efferato, nel dinamismo esasperato, ma pacatamente, dentro l’animo dei suoi personaggi e dei suoi spettatori. Questo processo riesce davvero a pochissimi film e Cure è uno dei migliori, in questo senso.