Das Licht, il sogno di un mondo che migliora da sé è morto: la recensione del film d’apertura della Berlinale

Il regista superstar del cinema tedesco Tom Tykwer apre la Berlinale con un film che ha dentro troppo di tutto: ipertrofico a di poco, si dà il colpo di grazia sul finale, ma il viaggio non è spiacevole.

Das Licht il sogno di un mondo che migliora da sé è morto la recensione del film dapertura della Berlinale

Dopo due ore e quaranta di Das Licht, la chiusa della storia è una sorta di colpo mortale che vanifica gran parte di quanto fatto in precedenza. È come un volo aereo con lunghi tratti piacevoli che si conclude con un atterraggio azzardato che si trasforma in uno schianto, alla luce di cui rivalutare l’intera esperienza in negativo.

In questo incidente rovinoso va perduto molto di un film d’apertura che definire ipertrofico è più che riduttivo. C’è davvero dentro tanto, tutto e il suo contrario in Das Licht, la pellicola tedesca a cui la Berlinale si affida per aprire l’edizione numero 75. Sicuramente troppo e non tanto e non solo per il suo minutaggio notevole (ma che comunque non si fa sentire) quanto perché non riesce a portare a termine in maniera soddisfacente nessuno dei suoi nuclei narrativi.

Das Licht, il sogno di un mondo che migliora da sé è morto: la recensione del film d’apertura della Berlinale

Il migliore è quello che riguarda la disfunzionale famiglia berlinese protagonista: due genitori over 40 in rotta tra di loro e i loro gemelli 28enni disadattati sociali (lei persa nelle serate da sballo in una sorta di comune poliamorosa, lui nel mondo dei videogiochi VR). Genitori e figli, partner non di parlano, vivono insieme ma tappati nelle loro stanze. I genitori sono entrambi impegnati a migliorare il mondo con lavori che poi di riveleranno inutili e ridondanti per un mondo che preferisce fare da sé. Sono anche in rotta tra di loro, insoddisfatti di quanto il partner non sia concentrato su di loro ma su sé stesso.

Disfunzionali, ironici, incasinati: i tedeschi tragicamente liberal di Das Licht

“Una famiglia disfunzionale tedesca che vive insieme ma in cui ognuno si fa gli affari suoi”, la definisce prima di una litigata degna del cinema di Gabriele Muccino la figlia, che ha il vizio di autodiagnosticare condizioni (la disfunzionalità) e patologie (la propria stessa, supposta, asessualità). Basterebbe questo quartetto - a cui si unice il figlioccio della protagonista avuto durante una missione umanitaria a Nairobi- a tenere in piedi un film. Il regista tedesco Tom Tykwer salta da melodrammatico e tragicomico, alle volte in modo molto brusco, per raccontare la fine dell’utopia liberale comoda di cui soffrono tutti i personaggi bianchi del film: quella che pensa che il mondo s’instraderà da sé nella direzione migliore e progressista una volta che è stata individuata e indicata, lasciandosi convincere da hashtag e flashmob.

Nel personaggio del padre Tim e nelle sue assurde contraddizioni il film trova i suoi momenti migliori. Gira sempre in bici, appena arriva a casa si spoglia completamente e se ne va in giro come niente fosse. Trasforma un sincero sfogo della figlia in un hashtag motivazionale piacione (#wir, noi), poi si presenta in ritardo alla clinica quando lei sta per abortire. È un disastro su tutta linea, come tutti i suoi familiari, ma in qualche modo è convinto di aver fatto abbastanza o che il mondo e i familiari non abbiano fatto a sufficienza per lui.

Le cose si complicano aggiungendo all’equazione il personaggio di Farrah (Tala Al Deen), esule siriana che porta con sé la vena sovrannaturale e surreale del film (non. Das Licht s’impantana soprattutto perché non riesce mai a decidersi su che ruolo assegnarle: quello della buona che, seppur per la propria agenda personale rimette insieme i cocci della famiglia liberal tedesca o quella della cattiva che sembrerebbe quasi causare la morte di un personaggio necessaria a pianificare la sua entrata in scena.

Das Licht, il sogno di un mondo che migliora da sé è morto: la recensione del film d’apertura della Berlinale

Dico quasi perché appunto, palesemente Tykwer non ha deciso da che parte stare, nonostante in teoria il suo film sia anche un pellicola incentrata sulle storture del sistema d’immigrazione clandestina in Europa dal Medioriente.

Il tutto narrato con una punta di realismo magico, perché Farrah attira a sé i singoli membri della famiglia per poi usare su di loro questa bizzarra tecnica di parascienza medicale che impiega un faretto che emette una luce pulsante continua. A questa luce fa riferimento il titolo, ma anche al raro raggio di sole in una Berlino perennemente punita dalla pioggia nei suoi scenari urbani simbolo.

La linea narrativa che via via racconta con crudezza cosa significhi, davvero, essere un migrante in Italia è molto meno incisiva perché Tykwer non è mai completamente a suo agio né con i kenyani né con i siriani che racconta nel film, limitandosi nei loro confronti a smaltire un racconto drammatico ma tutto sommato superficiale dei loro dolori e delle loro personalità.

L’immigrazione non è un argomento che Das Licht gestisce bene

Un personaggio come Farrah in teoria potrebbe essere misterioso, volutamente ambiguo e irrisolvibile. Se ne ricava invece l’impressione che il primo a non saperlo decifrare sia proprio il suo creatore. Nel caso della famiglia tedesca, bianca e benestante protagonista invece, riesce costantemente a sintetizzarla in scene di una cattiveria deliziosa, ambientate in una mappa affascinante della Berlino bene che è il perfetto contraltare del suo lavoro al timone della serie cult Babylon Berlin.

Tykwer riesce a sintetizzare le contraddizioni di questa fetta di società tedesca con passaggi fulminanti, come quando i quattro al gran al gran completo vanno al funerale della loro donna delle pulizie e non vengono riconosciti dai parenti di lei. Tanta solerzia però si manifesta solo dopo un’intera giornata in cui i maschi di casa hanno continuato la loro routine senza accorgersi che c’era un corpo senza vita, stroncato da una malore, dietro il bancone della cucina. Un corpo di cui sapevano solo il nome di battesimo, pur lavorando per loro da nni.

Das Licht non è esagerato solo nelle tematiche, ma anche nei toni e nei generi. Salta dal classico dramma familiare a numeri di danza contemporanea che illustrano l’insoddisfazione di ogni protagonista, sfociando persino nell’animazione. Solo che poi sceglie come filo conduttore musicale di questa riscoperta familiare e personale uno dei brani più scontati e banali dell’intera storia pop rock inglese: Bohemian Rhapsody dei Queen.

Das Licht

Durata: 162'

Nazione: Germania

5.5

Voto

Redazione

TISCALItestatapng

Das Licht

Ci sono film che sono sbagliati dall’inizio alla fine e talvolta hanno aperto importanti Festival. Non è il caso di Das Licht che, pur lontano dall’essere riuscito nella sua interezza, alterna passaggi interessanti a parti davvero sfuggire di mano, fino alla chiusa.

Il suo peccato mortale è proprio il finale, che sgonfia il crescendo conclusivo del film ed evidenzia come sia proprio Tykwer a non aver capito appieno cosa volesse dire con questa pellicola, aprendo mille discorsi senza chiuderne nessuno, ponendo come tessitrice d'intrighi un'esule siriana su cui tentenna più volte, dimostrandosi non ambiguo né misterioso, ma irrisolto. 

I suoi protagonisti tragici nel loro non capirsi e non capire quanto siano inconsistenti i drammi che li fanno soffrire sono la perfetta sintesi d un film che quando cerca di raccontare altre voci - quelli dei proletari che lavorano troppo, quelle dei migranti in Germania - smette immediatamente di essere incisivo. 

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