Dogman, recensione: un furbissimo Luc Besson approfitta dell’amore verso i cani
Luc Besson presenta il suo nuovo film, che mette in evidenza la sua bravura di regista ma anche la sua furbizia nel scegliere un protagonista e un argomento davvero furbi per intenerire il pubblico e ovviare alle polemiche. La recensione di Dogman.
Dogman si apre con una frase emozionante: ovunque ci sia un infelice, Dio manda un cane. Quella che meglio centra ciò di cui il film parla è più banale, più trita: i cani sono meglio delle persone. Un luogo comune che, vero o no, mette in evidenza soprattutto un approccio superficiale, assolutista, qualunquista a un discorso complesso, affascinante, talvolta sconfortante. Un luogo comune che, incredibilmente, viene anche esplicitato nel film, pronunciato dal protagonista da storia lacrimevole che Dogman presenta.
I luoghi comuni hanno questo forza e debolezza intrecciate l’una con l’altra: cristallizzare una realtà, ma semplificandola così tanto da banalizzarla, depotenziarla, rivelando soprattutto la superficialità di chi pronuncia frasi quali i cani hanno tutti i pregi, ma un solo difetto: si fidano degli esseri umani. C’è però chi su queste divisioni maniche della realtà fonda la propria personalità, la propria filosofia di vita, credendo che il mondo di possa così facilmente dividere in cani e persone, buoni e cattivi. Sono persone e spettatori che prediligono l’assenza di sfumature e ambiguità. Costoro troveranno in Dogman un film commovente e ispirante. Era stato così per Joker di Todd Phillips (che vinse anche il Leone d’Oro), lo stesso dicasi per The Whale di Darren Aronofsky: due pellicole polarizzanti presentate nelle precedenti edizioni di Venezia di cui Dogman è successore.
Sarà facilmente il titolo che spaccherà di più la critica, divisa tra entusiasti e detrattori. È inevitabile, quando la visione del mondo presentata è così netta, non in senso positivo. Che mondo racconta Dogman, allora? Uno che ci trasporta in un’America grottesca nel suo fanatismo religioso e nella sua violenza, in cui un ragazzino subisce gli abusi più terribili e trova nel suo legame con i cani tutto l’affetto che non ha mai ricevuto. Sarebbe anche un’avvio interessante, se non fosse che la tragica infanzia di Doug (Caleb Landry Jones) sembra ricostruita a partire da schegge di film degli anni ‘90.Dogman infatti è un po’ film drammatico sull’America dei quartieri difficili, un po’ thriller dalle allusioni queer con un killer en travestì che si esibisce in un locale drag il venerdì sera, un poliziesco con protagonista un antieroe che racconta la sua folle storia criminale a una psicologa distratta dai suoi drammi famigliari e ovviamente la pellicola lacrimosa con protagonisti tanti adorabili cagnetti, cagnolini e cagnoloni che compiono furti e tengono i criminali per le palle (letteralmente), con scene da commedia brillante.
Luc Besson frulla tantissime suggestioni dal cinema di quell’epoca, che ha contribuito a scrivere e plasmare con i suoi film commerciali. Ci sono almeno un paio di film di troppo in Dogman, creature deformi, mai nate completamente, che si cannibalizzano l’una lo spazio dell’altra. Potrebbe essere un film trascinante dato il tanto entusiasmo, la tanta voglia di fare un cinema fatto bene, visivamente appagante, da parte di chi il cinema lo ama e lo celebra. Il problema è il messaggio che si porta dietro, la banalità di una sceneggiatura furbetta e un po’ mercenaria.
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La trama di Dogman
Nella notte newyorkese a un posto di blocco viene fermato un camion. A guidarlo è un uomo ferito, sporco di sangue, vestito con il costume che Marylin Monroe indossava nel numero musicale di “Diamonds are the Girls Best Friends”. Il retro del camion trasporta decine di cani randagi.
Data la peculiare personalità del prigioniero, viene interpellata una psichiatra, che dovrà stabilire a quale sezione affidare il fermato (maschile o femminile?) e stabilire il suo stato di salute mentale. Doug non si tira indietro di fronte alle domande della dottoressa e le racconta la sua incredibile vita. Ragazzino maltrattato cresciuto nella gabbia insieme ai cani, Doug sviluppa una capacità unica di comunicare con loro, quasi parlassero una stessa lingua. Costretto a fare i conti anche con una disabilità che lo paralizza sulla sedia a rotelle, una volta chiuso il canile in cui lavora, Doug si ritrova a doversi inventare un modo per sbarcare il lunario insieme ai suoi tanti cani trovatelli. Il furto e il crimine saranno la sua svelta, senza disdegnare un posto nel mondo dello spettacolo, esibendosi in un localino di drag queens.
Le costanti della vita di Doug sono tre: i cani, la solitudine e la violenza. La sua famiglia canina e quella artistica sono le uniche fonti di consolazione e affetto, ma per proteggerle Doug finirà per esercitare quella violenza che ha subito per decenni.
Perché Dogman è un film furbo
Definire Dogman un disastro sarebbe ingeneroso, perché ha almeno due caratteristiche di alto livello: la regia di Besson e l’interpretazione intensa e partecipata del protagonista Caleb Landry Jones.
Dopo aver visto un film poco ispirato a livello di regia come Ferrari di Michael Mann, i colori neon e le cromie, il dinamismo della cinepresa, l’intuito visivo propri di Besson sono un piacere per gli occhi.
In Dogman in particolare Besson sembra prendere spunto a piene mani dall’immaginario visivo del cinema commerciale statunitense degli anni ‘90. Non si ha mai la sensazione di essere nel mondo reale, quanto piuttosto in una versione di New York di certi film polizieschi divisi tra gang e poliziotti insonni, o in Scuola di Polizia quando i cani prendono per il naso i poliziotti che sono sulle tracce di Doug. Anche il montaggio contribuisce a rendere il film piacevole, pieno d’energia, come dimostra l’editing della scena in cui Doug canta Edith Piaf.
Caleb Landry Jones ci mette davvero tutto quello che ha nel non facile compito di rendere il suo personaggio intenso e non ridicolo. Compito non sempre semplice, considerando la levatura di certi dialoghi. Anche Besson gli dà una mano, regalandogli primi piani intensi e una regia che lo fa sembrare già pronto per la notte degli Oscar.
Il resto però è davvero sconfortante, una summa di piccole e grandi furbizie volte ad apparire come un film forte, radicale, cosa che Dogman non è assolutamente. È invece il genere di pellicola che non solo pensa sia geniale utilizzare il dualismo della parola God, dio, che al contrario si legge Dog, cane. Non solo, sente il bisogno di esplicitarlo più volte nel corso della narrazione, dove i cani sono tutt’altro che al centro della scena, se non come spunto comico e parentesi di carineria.
Douglas usa i suoi cani come alternativa alle gambe che non può usare, inviandoli in situazioni pericolose, senza mai interrogarsi stia agendo per il proprio tornaconto, pur chiamandoli “i suoi bambini”.
Inoltre Dogman è particolarmente fastidioso nel fingere di prendere una posizione in merito al suo protagonista e i suoi crimini, salvo poi ritrattare. Douglas dice qualcosa di forte, la psichiatra lo contraddice portando avanti la visione dello status quo, lui le concede il punto e si procede, come se nulla fosse.
Esiste già la versione davvero radicale di questo film, in cui i cane sono assoluti protagonisti, senza una compagine umani a guidarli. S’intitola White God, l’ha girato Kornél Mundruczó e fa emergere chiaramente, per contrasto, quanto quella di Dogman sia una posa più che un’idea forte e sentita. Sia che Dogman vi piaccia sia vi disgusti, fatevi un favore e guardate anche questa pellicola, da cui Besson sembra prendere in presto parecchie idee.