Don't Die - L'uomo che voleva vivere per sempre: recensione del documentario di Netflix
Un viaggio nella discussa routine quotidiana di Bryan Johson
Su Netflix è disponibile il documentario Don’t Die - L’uomo che vuole vivere per sempre. Diretto da Chris Smith e prodotto dallo stesso Smith insieme ad Ashlee Vance, il giornalista che per primo ha iniziato a seguire le attività di Bryan Johnson, Don’t Die ci racconta la vita del milionario che segue il protocollo Blueprint per ringiovanire. Sì, avete capito bene: vuole invertire il processo d’invecchiamento, per vivere il più a lungo possibile. Tanto da essersi guadagnato il soprannome di Benjamin Button, come il protagonista del celebre film con Brad Pitt.
Don’t Die - L’uomo che vuole vivere per sempre
Protocollo di longevità, antiaging, inversione del processo di invecchiamento: Blueprint, il protocollo seguito rigorosamente da Bryan Johnson da alcuni anni, prevede uno stile di vita che per molti è rigidissimo, per Bryan invece è sinonimo di libertà.
Come sempre, è questione di punti di vista e il documentario di Netflix li espone in modo piuttosto completo. Perché un conto è sentir parlare di un uomo dal patrimonio stimato in mezzo miliardo di dollari che spende due milioni l’anno per smettere di invecchiare, ben altro conto è entrare nella sua casa, conoscere la sua storia, la sua famiglia, il suo stile di vita precedente.
Io credo che Don’t Die sia un documentario da vedere, perché tocca argomenti molto attuali e delicati. A cominciare dai comportamenti innegabilmente autodistruttivi che molti di noi mettono costantemente in atto. Scambiamo la libertà con la possibilità di ingerire sostanze nocive per la nostra salute, oppure anche farsi consapevolmente “del male” fa parte della libertà? Il vero nodo narrativo nella vicenda di Bryan Johnson è questo, e fa davvero pensare.
Uno stile di vita libero, o da carcerato?
Sveglia all’alba - anzi: prima. Controllo dei parametri vitali, un’ora di palestra, prelievo del sangue, colazione con cibo preparato e rigorosamente studiato per fornire nutrimento e non per soddisfare il palato. Bryan dice di avere sempre fame, eppure non sgarra. Mai. Per molti, questo è un regime da carcerato, per lui significa essere libero. Libero di poter vivere più a lungo, perché - afferma - Bryan ama molto la vita.
Ciononostante, amare la vita lo rende comunque schiavo di un protocollo estremamente rigido. Decine di integratori, farmaci (non necessari), terapie geniche, trasfusioni, interventi estetici e chi più ne ha più ne metta.
La vita di Bryan è quella di un uomo che non ha più bisogno di lavorare, perché ha accumulato una fortuna. Una persona comune non potrebbe mai permettersi il suo stile di vita, nel bene e nel male. Ed ecco che, mentre ci viene chiesto di formarci un’opinione sulle pratiche utilizzate da Bryan Johnson, la sua storia personale diventa essenziale per comprenderle.
Tutti conosciamo l’importanza del sonno, dell’esercizio fisico e di una dieta equilibrata per restare in salute. Sono concetti ormai noti alla stragrande maggioranza della popolazione mondiale. Ma Don’t Die fa riflettere su come le possibilità economiche siano l’unico fattore a fare la differenza fra una vita lunga e in salute e un’esistenza infernale. Pensate a un milionario americano e poi a un bambino che soffre la fame in Africa: c’è poco da discutere di comportamenti autodistruttivi, quando si tratta di condizioni così diverse.
Ecco quindi che, già, il protocollo di Bryan fa riflettere solo chi ha la possibilità di scegliere. Eliminando dall’equazione una buona parte degli 8 miliardi di esseri umani che popolano il pianeta. Pianeta che, altro fattore interessante su cui riflettere, stiamo distruggendo con quegli stessi comportamenti autodistruttivi che tendiamo a mettere in pratica scambiandoli per libertà. Ma la mia libertà, si sa, finisce dove inizia la tua, e il pianeta dovrebbe essere considerato “il” bene comune per eccellenza, cosa che non succede.
Di nuovo, la riflessione sul libero arbitrio resta centrale.
Dall’infanzia povera alla vita da milionario
Ci sono molti fattori che hanno influenzato la vita - e la psiche - di Bryan Johnson. Dall’infanzia in povertà, senza mai avere abbastanza denaro per mandare avanti la famiglia, fino alla comunità religiosa (Bryan è cresciuto nella comunità dei mormoni) fino all’arresto del padre e all’intuizione che avrebbe fatto la differenza in campo economico.
La vita di Bryan Johnson è illuminante: dimostra come l’influenza dell’ambiente famigliare, della religione e del tipo di educazione tendano a fare di noi le persone che siamo. Non a caso, Bryan racconta di aver lasciato la comunità religiosa mormone, cosa che addirittura gli impedisce di vedere due dei suoi tre figli: quando scegli di abbandonare la religione, non sono certo gli altri credenti a venirti incontro. Al contrario, ti isolano. La stessa cosa succede a uno dei figli di Bryan, Talmage, presente nel documentario e testimonianza vivente di come le scelte personali finiscano per influire sui rapporti famigliari. Anche quando, come per esempio nel caso della religione, non dovrebbero.
Il ritrovato legame con il padre, nonché il rinnovato rapporto con il figlio che ha seguito le sue orme rendendosi indipendente dal credo religioso sono il cuore della vita di Bryan Johnson. L’uomo che ha fatto una fortuna con BrainTree, l’alternativa a PayPal nel settore dei pagamenti elettronici, era come tutti noi: lavorava troppo, mangiava malissimo, dormiva poco. Il divorzio, le polemiche per l’accordo con la ex reso pubblico in cui Bryan avrebbe definito la donna al pari di un “investimento” economico e tanto altro potevano distruggere la vita di Bryan. Invece, l’hanno spinto verso una nuova filosofia, verso nuovi ideali. Condivisibili o meno - e chi scrive, afflitta da molte patologie croniche autoimmuni e conoscendo fin troppo bene gli effetti collaterali di questi farmaci, trova allucinante che una persona perfettamente sana assuma immunosoppressori, lo dico chiaro e tondo - gli ideali di Bryan rappresentano, oggi, anche il suo business.
In questo mondo di scettici, i prodotti del protocollo Blueprint finiscono sempre per essere esauriti. A riprova di come, magari criticando le scelte di Bryan, siano davvero in molti a cercare di imitarne lo stile di vita.
Certo: le persone comuni non hanno a disposizione il più sofisticato laboratorio medico personale, né hanno accesso alle costosissime (e rischiose, va detto) terapie geniche. Fanno ciò che possono, magari illudendosi che gli stessi integratori assunti da Bryan possano risolvere i loro problemi di salute.
Non è il primo, non sarà l’ultimo
L’elisir di lunga vita, la fonte della giovinezza, il sogno dell’immortalità: tutto ciò che si trova al centro della vita di Bryan Johnson è da sempre il sacro Graal dell’essere umano. Con la differenza che lui può permettersi sperimentazioni precluse a tutti gli altri. Ciononostante, Bryan non è certo stato il primo. Forse è il primo a sperimentare le terapia ormonali utilizzate - con metodi anche insensatamente crudeli, siete avvisati - sui topi da laboratorio, ma certamente non è il primo a inseguire il sogno di restare giovane.
Peter Thiel e molti altri prima di lui erano finiti al centro delle cronache per i tentativi di fermare il trascorrere del tempo che, pensate un po’, per molti di noi è sinonimo di saggezza ed esperienze preziose, che ci rendono migliori proprio col passare del tempo.
Ma nell’era della superficialità, dell’aspetto esteriore, degli influencer e delle ragazzine che a 18 anni hanno già subito 10 interventi non necessari di chirurgia estetica, la storia di Bryan fa riflettere.
È una visione completa di tutti i pro e i contro della sua filosofia? Non esattamente. Ma è abbastanza ricca di informazioni per permettere agli spettatori di avere gli elementi sufficienti a formarsi un’opinione. Ed è esattamente questo, che un documentario dovrebbe fare.