Don't Move: la recensione del thriller di Netflix prodotto da Sam Raimi

Un meccanismo inedito per un film non originale ma ben realizzato

Giusto ieri, commentando il famoso sondaggio su quale attore potrebbe essere il protagonista di American Psycho, visto che Luca Guadagnino ha annunciato di voler trarre un nuovo film dal romanzo, ho scritto:

Chiunque l’abbia visto in American Horror Story, sa che Finn Wittrock sarebbe all’altezza del ruolo.

E stamattina, all’arrivo di Don’t Move su Netflix, mentre una donna medita di prendere la decisione più difficile della sua vita - continuare a vivere - eccolo arrivare. Finn Wittrock. Col suo insospettabile sorriso e quella faccia da bravo ragazzo che cambia in un istante.

La trama di Don’t Move

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Iris (Kelsey Asbille, Monica Dutton in Yellowstone) sta attraversando un Moment incredibilmente difficile. Una mattina si alza, lascia il telefono in carica e mentre suo marito dorme ancora prende la macchina e guida fino al parco di Big Sur, in California. Si arrampica fino a un’altura dove incontra un uomo, Richard (Finn Wittrock). Nonostante l’iniziale riluttante, Iris finisce per parlare con Richard. Sembra che averlo incontrato sia stata una fortuna. Ma è tutt’altro: Richard è un pluriomicida che rapisce e uccide le donne…

Avanti, voltati!

Don't Move: la recensione del thriller di Netflix prodotto da Sam Raimi

Sperare che lo psicopatico di turno si volti e trovi la donna che gli è sfuggita. Don’t Move arriva a farci fare  perfino questo: sperare che Richard (sebbene il suo nome sia un altro) ritrovi Iris.

Non male, per un thriller in cui facciamo il tifo dal primo istante affinché la vittima sfugga al suo potenziale assassino.

Capirete di cosa parlo vedendo il film, che rende evidente - proprio per dettagli come questo - la mano di Sam Raimi, produttore che affida la regia a Brian Netto e Adam Schindler, entrambi al sostanziale debutto in un lungometraggio dopo aver lavorato alla serie 50 States of Fright, scritta e diretta anche da Raimi.

Raimi vince la scommessa, perché i due giovani registi sanno ciò che fanno. Quando basta una velocissima inquadratura, con un cambio di fuoco, per informarti che la protagonista esce di casa senza telefono perché è ancora in carica, significa che il regista sa fare il suo lavoro.

L’idea di Don’t Move nasce durante il lockdown, quando l’immobilità forzata fa venire in mente a T.J. Cimfel e David White (Intruders) di provare a pensare a cosa succederebbe se quell’immobilità fosse fisicamente imperante. Se non fosse stata la pandemia a costringerci a stare fermi, bensì qualcosa accaduto al nostro corpo.

Tanti precedenti, un'idea vincente

Don't Move: la recensione del thriller di Netflix prodotto da Sam Raimi

L’idea naturalmente non è nuova: da Monkey Shines di Romero a Il collezionista di ossa, passando per Midsommar e l’indimenticabile capolavoro di Wes Craven, Il serpente e l’arcobaleno, l’idea di una vittima impossibilitata a muovere un muscolo per difendersi è stata sfruttata decine di volte.

Qui, però, c’è il background a fare la differenza. In Don’t Move, Iris capisce di voler lottare quando non credeva di volerlo o poterlo fare ancora.

L’evidenza di riscoprire la propria forza, in una parabola di rinascita, non è tanto un’idea femminista, come qualcuno scriverà, quanto il tentativo di dimostrare che le persone - uomini o donne, perché anche Richard non scherza - hanno risorse inaspettate. Risorse che nemmeno loro sospettavano di possedere.

Don’t Move non sarà una prova di originalità, quindi, ma è molto ben recitato, non fa l’errore di chiudersi in un clima di claustrofobia che non funzionerebbe introducendo altri personaggi e ci racconta aneddoti apparentemente inquietanti sui protagonisti per poi servirsene nel finale. Scontato, magari - si poteva fare una scelta molto più coraggiosa - ma perfettamente in linea con la narrazione.

Narrazione turbata in un paio di occasioni da scene abbastanza truculente. Siete avvisati.

Don't Move

Rating: Tutti

Nazione: Stati Uniti

7

Voto

Redazione

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Don't Move

Don’t Move è il thriller di Netflix disponibile dal 25 ottobre e prodotto da Sam Raimi. Il sempre bravissimo Finn Wittrock (American Horror Story) e la sorprendente Kelsey Asbille (Yellowstone) sono protagonisti di una lotta senza quartiere fra un serial killer e quella che egli ha scelto come la sua prossima vittima.

Il film non brilla per originalità, perché è tutto piuttosto scontato incluso il finale, ma la tensione c’è e più volte ci fa stare con il fiato sospeso in attesa di qualcosa che sappiamo arriverà, ma non sappiamo quando.

Grande pregio del film è spingere lo spettatore a sperare che l’assassino riacciuffi la vittima che gli è momentaneamente sfuggita. Guardare per credere. Perché si tratta di una speranza più unica che rara, in un film come questo. Ma le circostanze create dalla sceneggiatura e la bravura degli interpreti lo rendono possibile.

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