El Conde, recensione: i vampiri mangiacuori di Pablo Larraín succhiano sangue e soldi
Dopo essersi messo al servizio di Hollywood, Pablo Larraín torna nel suo Cile con un film sui vampiri violento e dissacrante, tra cuori palpitanti e mazzate (non solo metaforiche) per la politica di ieri e oggi.
Pablo Larraín è un grande regista del presente e pazienza se il grande pubblico l’ha notato solo grazie alle sue trasferte hollywoodiane: Jackie e Spencer. I suoi fan di vecchia data attendevano da tempo che mettesse da parte le principesse tristi Jacqueline Kennedy e Lady Diana, per quanto il suo lavoro sia stato ineccepibile, nonostante copioni non sempre all’altezza delle sue capacità.
Finalmente Pablo Larraín è tornato a casa. Non tanto e solo in Cile, terra che vive, respira e racconta da sempre nel suo cinema. Casa per Pablo Larraín, cinematograficamente parlando, è la dittatura di Pinochet; magnifica e terribile ossessione che innerva da sempre i suoi film cileni (con l’unica eccezione di Ema).
Postmortem, Tony Manero, El Club, Neruda: a ogni nuovo capitolo, il regista ha esplorato le ricadute e i ritorni sinistri della dittatura cilena, durante il suo concretizzarsi e anche e soprattutto dopo, nel suo esaurirsi non così netto. Tutto il cinema di Pablo Larraín - dove Pinochet non è mai protagonista - sembra un enorme analisi del durante e del dopo Pinochet, talvolta un monito. La dittatura cade, ma le conseguenze rimangono lì, a distanza di anni, anche in democrazia.
Pinochet fino a oggi era stato un’ombra, una comparsa, un cameo, talvolta solo un’allusione, un’atmosfera sfuggente: in El Conde prende corpo e si prende il ruolo di protagonista assoluto. Non è il Pinochet storico però: nella parole del direttore della Mostra Alberto Barbera è “una rivisitazione barocca in chiave vampiresca”
Il bello è che, nonostante le premesse, El Conde è in tutto e per tutto un film di vampiri, cruento e diabolico, fatto di cuori strappati dai petti e frullati, di coltellacci dalla lama ricurva che brillano nell’oscurità, di vampiri col mantello che volano nella notte, di morsi sul collo, paletti e persino esorcismi.
Il tutto senza negare la sua autorità e la sua sferzante vena politica e polemica. Stavolta a Pablo Larraín interessa il versante finanziario del dittatore, che succhia il sangue, certo, ma strappa anche i soldi al Cile, affamandolo, complice di una classe industriale e politica connivente.
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La trama di El Conde di Pablo Larraín
Una piccola premessa: sarebbe auspicabile non conoscere due importanti svolte di trama vedendo El Conde, al cinema o su Netflix. Non farò accenno ai due punti chiave del film e il mio consiglio è evitare di leggere a riguardo finché non si è vista la pellicola, perché è davvero bello lasciarsi sorprendere dalle implicazioni genealogiche dei vampiri di Pablo Larraín.
Si narra che Pinochet in privato chiedesse di essere chiamato conte, da qui il titolo del film. Un po’ conte Dracula, un po’ vecchio aristocratico europeo ripudiato, Pinochet (Jaime Vadell) ha finto la sua morte per vivere ai margini di Santiago, consumato dalla decisione di non bere più sangue e lasciarsi morire. Il Conte vive insieme al suo maggiordomo (Alfredo Castro) ex militare e torturatore e alla moglie (Gloria Münchmeyer), che però è umana e lo assilla perché vuole essere morsa e diventare anche lei vampira.
In piccole casette fatiscenti, Pinochet e i suoi vivono ai margini della società, immersi in un fasto ormai polveroso. Una serie di omicidi avvenuti nella capitale spingono i 5 figli della coppia a rimettersi in contatto coi genitori e ad arrivare sull’isola. Il modus operandi delle uccisioni - le vittime si sono viste strappare il cuore - suggerisce la mano di Pinochet vampiro, che però nega e conferma il suo proposito suicida. Se si stava lasciando morire di fame, perché tornare a cacciare?
Nel frattempo arriva sull’isola anche un suora di nome Carmen (Paula Luchsinger), versata sia nella matematica sia negli esorcismi. Il suo compito ufficiale è quello di mettere assieme il patrimonio nascosto di famiglia e dividerlo tra gli eredi, ma sembra avere un’agenda tutta sua…
Cosa funzione e cosa no in El Conde
Girato in un superbo bianco e nero - moderno, profondo, definito - El Conde esplora le sinistre ombre finanziarie che caratterizzarono l’ascesa al potere del dittatore e che continuano ad avere una certa influenza su Cile di oggi. Per spiegare i complessi magheggi finanziari, le connivenze e le ruberie operate dai protagonisti, Pablo Larraín indugia un po’ troppo nella parte centrale e probabilmente perderà qualche spettatore.
El Conde ha un avvio fulminante e non lesina violenza. Teste ghigliottinate, omicidi, squartamenti: Michael Mann insiste che sarà sua la scena più macabra della Mostra con l’incidente stradale di Ferrari, ma anche il volto di una vittima frantumato per lunghi secondi a martellate, in primo piano, di El Conde si difende bene.
La pellicola Netflix dimostra che il regista cileno ha imparato eccome qualcosa dal suo lavoro statunitense, senza però perdere la sua voce, la sua cifra stilistica che fa di lui un autore di caratura internazionale. Così come accaduto a Guillermo Del Toro, è evidente come a livello produttivo si muova ad alti livelli e abbia raffinato una padronanza maggiore del grandeur visivo della pellicola. Bellissimi per esempio i voli notturni di Pinochet su Santiago rischiarata appena dall’alba, specie se comparati al primo, meraviglioso volo di un personaggio virginale che si risveglia vampiro.
L’aspetto più riuscito di El Conde però è indubbiamente l’invettiva politica: era da tempo che non si vedeva un film così caustico, quasi aggressivo. El Conde ha al suo centro i rapporti famigliari; sia di coppia sia filiari. Quando Pablo Larraín comincia a tirare le somme e a mostrare ciò che aveva celato dietro un voice over, ribalta la posizione del suo protagonista e rende il discorso più grande, più geopolitico, più audace. Anche il rapporto tra un dittatore e le superpotenze che lo fanno prosperare è filiare, in qualche modo.
Negli ultimi 30 minuti il film prende il volo, letteralmente e qualitativamente, un po’ come accadeva in Post Mortem (2010): solo alla fine si rivela davvero la grandezza della visione, l’incisività immaginifica della scrittura, la violenza dell’invettiva verso i conniventi che hanno trasformato Pinochet nel vampiro che ha strappato il cuore del Cile, senza dimenticare la chiesa, con un risvolto amaro, cinico, che ricorda un po’ Fellini.