Everything Everywhere All at Once è già il film simbolo del 2022: la recensione di un cult istantaneo
Il film fantascientifico ipertrofico e multidimensionale dei fratelli Daniels ha fatto impazzire gli Stati Uniti e rischia di sbancare agli Oscar. A ragione: Michelle Yeoh guida una pellicola davvero strabiliante.
C’è una battuta fulminante di Everything Everywhere All at Once che chiarisce più di ogni altro passaggio dei 140 minuti di questo tour de force multidimensionale la distanza siderale che lo serata da ogni altra pellicola vista nel 2022. Everything Everywhere All at Once rischia di essere il film simbolo dell’annata per tanti motivi: uno di questi è la protagonista che sceglie di mettere coraggiosamente al centro della sua storia.
Evelyn (Michelle Yeoh) infatti è un’immigrata di origini cinesi sulla soglia dei 60 anni che vive negli Stati Uniti, oberata di lavoro e sull’orlo del fallimento, sia familiare sia imprenditoriale. Donna, over 50, non caucasica che trasporta il film all’interno del recinto della cultura e della mentalità di stampo asiatico: è molto probabile che non vi sia capitato di vedere nell’ultimo anno solare un film basato su premesse tanto anticonvenzionali e - almeno in teoria - poco commerciali. Sicuramente non avete visto un film che basa la figura del suo Prescelto ed Eroe della sua storia sulla versione peggiore possibile della protagonista, più deludente di tutto il Multiverso.
Di cosa parla Everything Everywhere All at Once
Alpha Waymond (Ke Huy Quan) un certo punto dice sorpreso a Evelyn: “tu sei di gran lunga la versione di te stessa più deludente e meno realizzata che ho incontrato finora, quella che ha preso tutte le scelte sbagliate e non ha mai espresso il suo potenziale”. Nessuno meglio di lui può esprimere un giudizio in merito. Da quando nella sua versione della realtà è stata scoperta la possibilità di mettersi in contatto con altre versioni di sé nel Multiverso, ha inseguito ogni versione possibile di Evelyn, convinto che sia l’unica che possa sconfiggere l’entità malefica che mette a repentaglio la sopravvivenza stessa della realtà. Una realtà che crea una versione differente di una persona a ogni scelta che prende, creando infinite variabili, infiniti universi nel Multiverso. La Evelyn protagonista del film sembra essere riuscita a sbagliarle quasi tutte.
Che sia forse questa Evelyn scorbutica, indurita da una vita non all’altezza dei suoi sogni e sfinita dalle critiche del padre, dall’ingenuità del marito e dal bizantino processo di regolamento fiscale delle tasse, a poter salvare tutti i mondi? Forse sì: nel suo essere a zero rispetto al suo potenziale, è proprio questa la versione di Evelyn in grado di mettersi in contatto con le altre più facilmente e sfruttare le loro abilità che lei non è mai riuscita a mettere a frutto.
C’è una battuta fulminante di Everything Everywhere All at Once che chiarisce più di ogni altro passaggio dei 140 minuti di questo tour de force multidimensionale la distanza siderale che lo serata da ogni altra pellicola vista nel 2022. Everything Everywhere All at Once rischia di essere il film simbolo dell’annata per tanti motivi: uno di questi è la protagonista che sceglie di mettere coraggiosamente al centro della sua storia.
Evelyn (Michelle Yeoh) infatti è un’immigrata di origini cinesi sulla soglia dei 60 anni che vive negli Stati Uniti, oberata di lavoro e sull’orlo del fallimento, sia familiare sia imprenditoriale. Donna, over 50, non caucasica che trasporta il film all’interno del recinto della cultura e della mentalità di stampo asiatico: è molto probabile che non vi sia capitato di vedere nell’ultimo anno solare un film basato su premesse tanto anticonvenzionali e - almeno in teoria - poco commerciali. Sicuramente non avete visto un film che basa la figura del suo Prescelto ed Eroe della sua storia sulla versione peggiore possibile della protagonista, più deludente di tutto il Multiverso.
Di cosa parla Everything Everywhere All at Once
Alpha Waymond (Ke Huy Quan) un certo punto dice sorpreso a Evelyn: “tu sei di gran lunga la versione di te stessa più deludente e meno realizzata che ho incontrato finora, quella che ha preso tutte le scelte sbagliate e non ha mai espresso il suo potenziale”. Nessuno meglio di lui può esprimere un giudizio in merito. Da quando nella sua versione della realtà è stata scoperta la possibilità di mettersi in contatto con altre versioni di sé nel Multiverso, ha inseguito ogni versione possibile di Evelyn, convinto che sia l’unica che possa sconfiggere l’entità malefica che mette a repentaglio la sopravvivenza stessa della realtà. Una realtà che crea una versione differente di una persona a ogni scelta che prende, creando infinite variabili, infiniti universi nel Multiverso. La Evelyn protagonista del film sembra essere riuscita a sbagliarle quasi tutte.
Che sia forse questa Evelyn scorbutica, indurita da una vita non all’altezza dei suoi sogni e sfinita dalle critiche del padre, dall’ingenuità del marito e dal bizantino processo di regolamento fiscale delle tasse, a poter salvare tutti i mondi? Forse sì: nel suo essere a zero rispetto al suo potenziale, è proprio questa la versione di Evelyn in grado di mettersi in contatto con le altre più facilmente e sfruttare le loro abilità che lei non è mai riuscita a mettere a frutto.
Quanto abbiamo sottovalutato Michelle Yeoh e Jamie Lee Curtis
Se il film è tanto riuscito soprattutto nel suo emozionare il pubblico, il merito va in misura non trascurabile alla protagonista Michelle Yeoh. Verrebbe da lodarla per come padroneggi in maniera assolutamente straordinaria tante versioni di un personaggio che le permettono di esprimere altrettanti registri che il cinema raramente le ha regalato. Si tratta indubbiamente della performance di una vita, ma non è questo il suo merito maggiore. Yeoh riesce a dare profondità e maturità a un personaggio calato in un film il cui limite principale è quello di avere un linguaggio, un messaggio e un’introspezione a tratti semplice, molto adolescenziale. I Daniels sono assolutamente strepitosi alla regia (e ci ricordano che abbiamo fatto male a trascurare il cinema d’autore e quello orientale per tanto tempo), scelgono tutti gli interpreti migliori credendo in carriere per altri finite o mai cominciate, ideano una storia sfavillante e stratificata tanto a livello narrativo quanto visivo, circondandosi di grandissimi professionisti per musiche (pazzesca la colonna sonora di Son Lux) e costumi (fenomenale il lavoro di Shirley Kurata).
La prima ora di Everything Everywhere All at Once è davvero perfetta, forse la miglior ora di cinema vista quest’anno in sala. Nella seconda parte però s’innamorano un po’ troppo della loro stessa idea, si ripetono e indulgono in passaggi che depotenziano un film che in maniera ipertrofica e strabiliante esprime in modo complesso un concetto fin troppo semplice. A dare maturità e introspezione ai passaggi più superficiali della sceneggiatura ci pensa Yeoh, che fa pesare tutto il suo vissuto di attrice e donna sessantenne, facendo vibrare la storia di Evelyn di un vissuto e un sentito indispensabili per non annegare in una certa superficialità, come accaduto nel precedente film dei Daniels Swiss Army.
A darle man forte per la prestazione da non protagonista ma ugualmente straordinaria di una Jamie Lee Curtis eccezionale. In un qualsiasi altro film il ruolo della funzionaria dell’eccentrica fisco Deirdre Beaubeirdra sarebbe andato a Tilda Swinton, maestra di donne sopra le righe. Curtis qui riesce a sfruttare le derive più acide e surreali del suo personaggio dandogli una profonda umanità e grande maturità. Non a caso uno dei ripianti maggiori che si lascia dietro questo film è di aver esplorato così poco l’assurdo universo in cui Deirdre ed Evelyn sono assolute protagoniste. Merita una menzione anche Stephanie Hsu, nei panni ultrapop della figlia della protagonista.