Fair Play: la recensione del thriller emotivo di Netflix
La recensione di Fair Play, il thriller di Netflix in cui una giovane coppia passa dal paradiso all'inferno
Dalla normalità al delirio, passando per una tensione quasi insostenibile. In alcune scene, almeno.
Non ci sono misteri, intrighi, tradimenti o piani diabolici, in questo film. C’è solo una coppia. Una giovane coppia innamorata destinata a scoprire, suo malgrado, che gli equilibri di potere nelle coppie giocano un ruolo fondamentale, ma anche pericoloso.
Quando nasce una nuova coppia, il potere va stabilito. Di solito succede naturalmente, nei vari ambiti di vita dei due protagonisti del nuovo amore. Ma qui, nelle vite di due personaggi interpretati da attori di talento, quando l’equilibrio s’incrina inizia un effetto domino che li porterà sull’orlo della follia. E magari anche oltre..
La trama di Fair Play
Emily (Phoebe Dynevor, Bridgerton) e Luke (Alden Ehrenreich, Oppenheimer) sono giovani, belli, innamorati.
Vivono insieme e fanno progetti di vita con l’entusiasmo tipico della loro età. Ma lavorano anche insieme, e lo fanno nell’ambiente spietato dell’alta finanza di Wall Street.
Quando gli equilibri di potere all’interno della coppia vengono stravolti da cambiamenti sul lavoro, ogni cosa inizia a scricchiolare fino a soccombere sotto il peso dei luoghi comuni, dell’incapacità di gestire situazioni difficili, del rifugio in meccanismi distruttivi e autodistruttivi da cui, forse, non saranno mai in grado di uscire…
La recensione di Fair Play: quando l’equilibro di potere s’incrina
Fair Play è un film emotivamente impegnativo. Costruito con sapienza per far appassionare gli spettatori ai due protagonisti, e poi - quando sono ormai coinvolti dai loro progetti di vita - distruggere tutto. Un pezzetto alla volta. Un’incomprensione, una gelosia, un’incapacità di gestire i nuovi equilibri di potere alla volta.
Ci sono tutti gli stereotipi sessisti a cui ricorrono gli uomini e le donne quando vogliono ferire l’altro. Tutti. Per mostrare che quando si vuole far male, si usa ogni arma a disposizione.
Ci sono i sospetti, le insinuazioni, le malelingue che dubitano delle capacità lavorative se a far carriera è una donna, perdipiù bellissima, mentre nessuno si stupisce di un uomo che avanza nella carriera.
C’è un ambiente spietato, quello della finanza, con un capo - il sempre incisivo Eddie Marsan (Ragazze elettriche, Ray Donovan) - che sembra privo di sentimenti salvo poi mostrare comprensione in momenti inaspettati.
L’ambiente di Fair Play è l’ambiente degli squali, dell’eccellenza, dove il più scarso viene da Yale o Harvard e la concorrenza non ti lascia respirare. I legami si creano e si dissolvono in un battito di ciglia, a seconda del ruolo che si ricopre all’intento dell’azienda. Un’azienda in cui nessuno, nemmeno i più insospettabili, sarà mai al sicuro.
Fare soldi è l’unica cosa che conta, e quando i soldi diventano tanti i problemi piovono dal cielo. Dovrebbe essere il contrario, in base al sogno americano, ma nella New York di Fair Play si dimostra come per gestire il successo ci voglia una maturità che i giovani, loro malgrado, non hanno.
Mai quanto in questo film l’idea che si dovrebbe vivere una vita alla Benjamin Button gioca un ruolo centrale: la passione, l’entusiasmo, la professionalità e l’intelligenza non sono nulla paragonati all’esperienza. E Campbell (Marsan), il capo, ha una grande esperienza. Per lui, tutti i dipendenti sono uguali. Intercambiabili. Nessuno è indispensabile e quando questo concetto inizia a insinuarsi anche nell’amore fra Emily e Luke, inizia la discesa verso l’inferno.
Un inferno di rabbia che finisce nella violenza, da una parte e dall’altra, con sequenze davvero difficili e una pressione emotiva capace di turbare profondamente, se si accetta di concedere a Emily e Luke di coinvolgerci.
Dopo il finale, volutamente tronco, Fair Play ci lascia con una sensazione di disagio che ci spinge a ripercorrere le tappe della storia per riflettere sulle delicate tematiche affrontate dal film.
Dalla violenza sessuale alle molestie sul posto di lavoro, dall’incapacità di gestire un rapporto personale e lavorativo quando non si è più alla pari fino alla volontà di distruggere l’altro per vendicarsi. Forse per andare avanti. Più probabilmente, per restare esattamente dove si è arrivati: dove non ci si sarebbe mai e poi mai dovuti spingere.