Ferrari, recensione: niente rombo, uno sbiadito rosso Ferrari
Michael Mann delude: alieno in terra emiliana, poco interessato ai motori e molto alle donne di Enzo Ferrari, ci regala il biopic peggiore: quello di un’Italia ancora una volta stereotipata.
Tante donne e pochi motori per Michael Mann, regista che di solito impressione per l’estetica, la dimensione visiva del suo cinema che riesce persino a farsi racconto morale. Collateral, Miami Vice: le sue ultime opere in ordine di tempo sono state capite nella loro grandezza solo molto dopo e sono attualmente in piena fase di rivalutazione e scoperta.
Difficile immaginare un percorso simile per Ferrari, la pellicola che doveva regalarci il ritorno di un maestro del cinema e ci consegna invece l’ennesimo biopic sulla falsa riga di House of Gucci. Ovvero americani che si mettono in testa di raccontare uomini d’affari potenti della storia del ‘900 italiano ma non riescono a farlo fuor di stereotipo. Forse, come ci insegna Comandante, per mettere della verità in una certa visione del Bel Paese bisogna esserci nati, esserci cresciuti.
Michael Mann invece è palesemente poco a suo agio tra le colline modenesi, lontano dalle luci al neon, dai crepuscoli metropolitani, dalla violenza intrinseca nella natura americana. Le colline emiliani non sono dolci per lui, ma ostili, estranee, fotografate in maniera sgraziata, senza visione, senza ispirazione.
Un regista che di solito colpisce per la potenza visiva della sua regia qui lascia poco di memorabile. Ferrari è un biopic che vorrebbe essere il ritratto celebrale di un uomo e una donna divisi da un lutto ma rimasti uniti grazie alla loro idea imprenditoriale. Difficile invece dire che traguardi raggiunga Ferrari, oltre alla delusione che genera nello spettatore fan di vecchia data del regista o in chi si aspetta un film tutto macchine e corse e si ritroverà poco rombo dei motori, poco fango che schizza sui paraurti, pochissime emozioni.
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La trama di Ferrari
Come gran parte dei biopic contemporanei, Ferrari non racconta l’intera vita del suo soggetto, il commendator Enzo Ferrari, cofondatore del Cavallino rampante, ma solo un arco narrativo molto specifico. Siamo nel 1957 a Modena e l’ingegnere Ferrari affronta un periodo di crisi nera.
La sua azienda ha un disperato bisogno di capitali esterni, sennò dovrà dichiarare bancarotta. Il suo matrimonio con la co-fondatrice Laura (Penélope Cruz), che detiene il controllo di metà dell’azienda, è deteriorato da tempo. La donna, che si occupa con perizia dei conti dell’azienda e delle sue traversie finanziarie, è più adirata con il marito per la morte del figlio Dino che per le sue innumerevoli scappatelle amorose. Ancora non sa che altrove Enzo ha una nuova donna di nome Lina (Shailene Woodley) e un figlio che cresce sano e robusto, un amore forte.
Assediato dalla stampa che gli dà dell’assassino per le tante morti dei suoi piloti, Ferrari ha costruito una fabbrica di automobili solo per potersi dedicare alla passione delle corse, ma non produce abbastanza veicoli per poter sostentare la sua ossessione per la vittoria. Di poca consolazione è la consapevolezza che i vicini e rivali della Maserati navighino acque ancora peggiori.
I due gioielli dell’industria automobilistica italiana si ritrovano così a lottare per la sopravvivenza: chi vincerà la Millemiglia del 1957 attrarrà potenziali acquirenti e potrà forse garantirsi la sopravvivenza.
Cosa funzione e cosa no in Ferrari
Bisogna riconoscere a Ferrari di scegliere un taglio narrativo non scontato. Alla fine del film capiamo che non è tanto un film sulla costruzione di bolidi da sogno, quanto la storia della fine di un matrimonio causato dalla perdita di un figlio, in cui i due protagonisti si aggrappano all’altro figlio per sopravvivere: l’azienda, il marchio.
Shailene Woodley è la donna della vita di Enzo, ma una Penélope Cruz così intensa da sembrare folle è la donna del film. Mann arriva a raccontare i protagonisti in un rapporto alla pari, in cui entrambi sono fautori della nomea del marchio. Laura è uno squalo in fatto di finanza e magheggi legali. Nonostante appaia vendicativa, è capace di un’onestà e un acume inaspettato, che si riflettono nella decisione di Enzo di parlarle spesso con grande franchezza.
Purtroppo a venare d’amaro questa storia c’è il solito racconto esagerato dell’affettività italiana. Preparatevi a vedere di nuovo Adam Driver nei panni di un imprenditore italiano prendere con forza la sua partner focosa su un desco, quasi che in Italia i letti non esistessero, in una scena che è poco più accettabile di quella francamente imbarazzante tra Driver e Lady Gaga in House of Gucci.
Sul fronte automobilistico il rombo dei motori è lontano, il rosso delle Ferrari appannato: non è un film così interessato solo alle corse. La decisione di inserire un continuo senso di sventura, un foreshadow della tragedia di là da venire, fiacca quella che è già la parte più debole del film. La tanto reclamizzata scena dall’incidente automobilistico “più violenta della storia del cinema” non solo non è particolarmente cruenta e impattante, ma è la summa di quanto visivamente questo film risulti fasullo, brutto.
Voto
Redazione
Ferrari, recensione: niente rombo, uno sbiadito rosso Ferrari
Dopo tanto tempo, Michael Mann è finalmente tornato ma è irriconoscibile: Ferrari è un film che è forse solo nel sfoderare certi stereotipi sull’italianità, poco interessato ai motori, incapace di fare sua l’unicità dei luoghi in cui è ambientato o di partorire un qualsivoglia tipo di bellezza cinematografica. Uscito alla prima curva, non rientra più in gara. Trascurabile.