Finestkind: la recensione del film con Tommy Lee Jones, Jenna Ortega e Ben Foster

Un grande cast permette a un film purtroppo indeciso di raggiungere la sufficienza. Ma se in sceneggiatura si fosse fatta una scelta, le cose sarebbe andate molto meglio

di Chiara Poli

In una storia di pescatori, ci si aspetta un naufragio a metà o alla fine del film. Come ne La tempesta perfetta, con George Clooney, tanto per fare un esempio. L’ambientazione di Finestkind è simile a quella della pellicola con Clooney, ma solo perché ci racconta la storia di come i pescatori diventino una famiglia anche quando si trovano a terra.

Vivono nello stesso modo, bevono insieme, condividono le alzatacce al mattino e il rischio continuo in un mestiere che paga poco ma appassiona molto.

Non aspettatevi un film d’azione come La tempesta perfetta, però. Questo è un film drammatico. Puro e semplice.

Finestkind, disponibile su Paramount+, ci racconta la storia di una di queste famiglie. E di un’incredibile avventura fra le onde, l’unico luogo in cui i pescatori si sentono davvero a casa.

La trama di Finestkind


Tom (Ben Foster, Hell or High Water) è un pescatore. Vive da solo, vive per il suo lavoro. Quando il suo fratellastro Charlie (Toby Wallace, Boys in the Trees) sta per andare al college, gli chiede di portarlo in barca con lui. Tom è riluttante ma alla fine accetta e le cose in mare vanno male. Tornati a terra, i due fratelli iniziano a stringere un legame che prima non avevano mai avuto, cementato dalla passione per il mare. Il padre di Tom, Ray (Tommy Lee Jones, Non è un paese per vecchi), possiede una barca da pesca: la Finestkind. Chiede a Tom di portarla a pescare per lui, che è ormai anziano. Ma, di nuovo, le cose vanno male. Per cercare di risolvere la situazione e aiutare Tom, Charlie tramite la sua nuova ragazza, Mabel (Jenna Ortega, Mercoledì), stringe un accordo con un gangster di Boston. E indovinate un po’? Le cose vanno male… Così ai due fratelli toccherà fare in modo di salvare gli amici, la Finestkind e il proprio futuro. Rigorosamente insieme.

La recensione di Finestkind: quando la passione supera l’ambizione, ma manca equilibrio


Tommy Lee Jones, premio Oscar per Il fuggitivo come migliore attore non protagonista, a 77 anni ci regala un’altra straordinaria performance. Accanto a una Lolita Davidovich (Hollywood Homicide) che ha 15 anni di meno ma ci fa capire subito che cosa, nel personaggio di Ray, avesse affascinato Donna tanti anni prima.

Ray e Donna hanno avuto un figlio, Tom. Il loro matrimonio è naufragato e Tom sembra in qualche modo rappresentare quel naufragio (anche letteralmente). Ma non è mai troppo tardi per sperare che anche per lui le cose vadano meglio.

Tutti i genitori sognano un futuro migliore per i propri figli. Perfino nelle famiglie disfunzionali. Ed è di questo che ci parla Finestkind: di come le ambizioni dei genitori non corrispondano necessariamente alla felicità dei figli, che preferiscono non arricchirsi ma vivere ogni giorno le loro passioni.

E il mare, si sa, è una delle più grandi passioni che gli uomini possano coltivare.

Finestkind è un film drammatico, in cui crimine e disperazione, amore e nostalgia, passione e debiti s’intrecciano esattamente come dovrebbero fare in una storia drammatica. Però manca qualcosa. Manca un certo equilibrio.

E ci sono delle svolte narrative che lasciano parecchio perplessi. Dopo aver insistito per tutto il film affinché il figlio Charlie vada al college in cui è stato ammesso e stia lontano dal mare, suo padre Gary (interpretato dall’ex bellissimo Tim Daly, che per ironia in TV ha interpretato il ruolo del dottor Richard Kimble ne Il fuggitivo e ora recita accanto a Tommy Lee Jones, famoso per il film con Harrison Ford) cambia idea. Litigi e incomprensioni e poi basta un accorato dialogo e Gary approva, sorride, aiuta, addirittura partecipa… Nella vita queste cose non succedono. Ma anche in un film, così, risultano poco verosimili.

In effetti la mancanza di verosimiglianza è il problema maggiore di Finestkind, che funziona alla grande quando i protagonisti sono in mare, e molto meno quando sono sulla terraferma.

Scritto e diretto da Brian Helgeland (Payback, Il destino di un cavaliere) e prodotto dal Re Mida della TV Taylor Sheridan (Yellowstone), Finestkind è un film che risente dell’aver voluto mettere troppa carne al fuoco.

La parte da gangster-movie, che scivola nel fin troppo facile stereotipo dei pescatori che amano il mare e continuano a lavorarci per passione, ma poi per pagare i debiti devono darsi al crimine, poteva essere evitata.

Forse Helgeland voleva inserire un po’ d’azione in un film che una larga parte del pubblico, abituato a un ritmo narrativo sostenuto, avrebbe potuto trovare noioso. In realtà, se la storia si fosse concentrata esclusivamente sui rapporti familiari e il rapporto dei personaggi con il mare, tutto sarebbe filato liscio.

Anche il personaggio di Mabel, simpaticamente “ribelle” e sfortunato quando lo incontriamo, risente molto della parte con i criminali di Boston, visto che la ragazza interpretata da Jenna Ortega ne esce piuttosto male. In tutti i sensi.

Insomma: Finestkind sembra incapace di prendere una decisone. Una direzione univoca. Peccato, perché le interpretazioni sono tutte all’altezza, il rapporto fra Ray e Tom - e le loro scarne ma fondamentali tradizioni di famiglia - appassiona e le sequenze girate in mare fanno la differenza.

In questo minestrone d’intenti, però, si limitano a far raggiungere la sufficienza a un film che avrebbe potuto regalarci molto, molto di più. Sarebbe bastato lasciare l’indecisione e fare una scelta forse coraggiosa, o magari semplicemente sensata e raccontare una storia di pescatori. E solo quella.