Fuocoammare
di
Roberto Vicario
Gianfranco Rosi era ancora impegnato a Lampedusa con le riprese del suo documentario quando gli organizzatori del festival del cinema di Berlino l'hanno invitato ufficialmente a partecipare alla competizione (competizione che ha appena vinto). Accettato l'invito, Rosi ha montato velocemente il suo docu-film, portandolo davanti alla giuria internazionale. Il risultato é stato eccezionale, una vera e propria ovazione per il regista che già con Sacro GRA aveva dimostrato di saper raccontare la realtà con estrema discrezione, toccando la sensibilità di coloro che si sono immersi nella visione di quello che lui stesso ha girato in prima persona. Ma di cosa parla Fuocoammare?
Parlare di Lampedusa non é un compito semplice. Un'isola che ha la conformazione di una terra di confine. Un luogo a metà tra l'Africa e l'Italia che appare per molti migranti una vera e propria terra di speranza. Raccontare Lampedusa, soprattutto, é estremamente difficile perché tutti ne parlano. Telegiornali, radio e internet parlano di un continuo “stato d'emergenza” ma la verità é che l'emergenza, su quell'isola, é costante, opprimente e toglie quasi il fiato.
Rosi, dopo l'ottimo Sacro GRA, decide quindi di vivere insieme ai lampedusani la quotidianità dell'isola. Cerca in maniera discreta, di guadagnarsi la fiducia delle persone, tanto da convincerle a lasciarsi filmare mentre conducono la loro vita. Proprio questa sottile ma estremamente importante chiave di lettura, rende il documentario più intimo e diretto.
Il regista - che ha girato tutto da solo, macchina in spalla - fa una scelta importantissima, ovvero quella di non raccontare, ma di lasciar raccontare, portando su schermo un contrasto tanto violento quanto silenzioso, quasi fosse una forma di rispetto. Conosceremo così Samuele un bambino di 9 anni che ama lanciare con la fionda, e che pur venendo da una famiglia di mariani, soffre di mal di mare. Ascolteremo il DJ dell'isola che gestisce Radio Delta, unica emittente disponibile; oppure il Dr. Pietro Bartolo, medico dell'isola di Lampedusa, che in un commovente passaggio ci racconta quello che é costretto a vedere tutti i giorni.
In mezzo a queste storie di quotidianità, ma raccontate col piglio del regista, si inseriscono gli sbarchi. Immagini crude, dirette, strazianti all'inverosimile. Il regista indugia nella disperazione ma senza invaderla del tutto con la telecamera, permettendoci di osservare uno spaccato su quello che rappresentano, realmente, questi sbarchi.
Questo fino a quando si arriva a quello più drammatico, in cui gli occhi di alcuni giovani immigrati bastano per percepire la morte e la sofferenza che hanno vissuto intorno a loro. Vedi i corpi di persone disidratate spostati come sacchi di patate, e lasciati sul pontile di una nave con una flebo al braccio, nella speranza che si possano riprendere, arrivando a quei cadaveri che siamo costretti a vedere tutti i giorni in televisione, ma che in questo contesto sembrano ancora più reali.
Dopo un anno di riprese, in quel preciso istante, Rosi ha deciso che era abbastanza, che aveva avevo il necessario per raccontare Lampedusa. Ecco, anche lo spettatore in quell'istante capisce che é abbastanza. Sufficiente per capire che anche nella morte, forse, ci vuole dignità e rispetto. Che non ci si può e non ci si deve “abituare” a queste immagini, perché come dice lo stesso medico dell'isola: ”…credono che vedendo queste cose ogni giorno, io ormai mi sia abituato. Non é così, non ci si abitua mai...”.
Una tragedia raccontata con estrema dignità
Parlare di Lampedusa non é un compito semplice. Un'isola che ha la conformazione di una terra di confine. Un luogo a metà tra l'Africa e l'Italia che appare per molti migranti una vera e propria terra di speranza. Raccontare Lampedusa, soprattutto, é estremamente difficile perché tutti ne parlano. Telegiornali, radio e internet parlano di un continuo “stato d'emergenza” ma la verità é che l'emergenza, su quell'isola, é costante, opprimente e toglie quasi il fiato.
Rosi, dopo l'ottimo Sacro GRA, decide quindi di vivere insieme ai lampedusani la quotidianità dell'isola. Cerca in maniera discreta, di guadagnarsi la fiducia delle persone, tanto da convincerle a lasciarsi filmare mentre conducono la loro vita. Proprio questa sottile ma estremamente importante chiave di lettura, rende il documentario più intimo e diretto.
Il regista - che ha girato tutto da solo, macchina in spalla - fa una scelta importantissima, ovvero quella di non raccontare, ma di lasciar raccontare, portando su schermo un contrasto tanto violento quanto silenzioso, quasi fosse una forma di rispetto. Conosceremo così Samuele un bambino di 9 anni che ama lanciare con la fionda, e che pur venendo da una famiglia di mariani, soffre di mal di mare. Ascolteremo il DJ dell'isola che gestisce Radio Delta, unica emittente disponibile; oppure il Dr. Pietro Bartolo, medico dell'isola di Lampedusa, che in un commovente passaggio ci racconta quello che é costretto a vedere tutti i giorni.
In mezzo a queste storie di quotidianità, ma raccontate col piglio del regista, si inseriscono gli sbarchi. Immagini crude, dirette, strazianti all'inverosimile. Il regista indugia nella disperazione ma senza invaderla del tutto con la telecamera, permettendoci di osservare uno spaccato su quello che rappresentano, realmente, questi sbarchi.
Questo fino a quando si arriva a quello più drammatico, in cui gli occhi di alcuni giovani immigrati bastano per percepire la morte e la sofferenza che hanno vissuto intorno a loro. Vedi i corpi di persone disidratate spostati come sacchi di patate, e lasciati sul pontile di una nave con una flebo al braccio, nella speranza che si possano riprendere, arrivando a quei cadaveri che siamo costretti a vedere tutti i giorni in televisione, ma che in questo contesto sembrano ancora più reali.
Dopo un anno di riprese, in quel preciso istante, Rosi ha deciso che era abbastanza, che aveva avevo il necessario per raccontare Lampedusa. Ecco, anche lo spettatore in quell'istante capisce che é abbastanza. Sufficiente per capire che anche nella morte, forse, ci vuole dignità e rispetto. Che non ci si può e non ci si deve “abituare” a queste immagini, perché come dice lo stesso medico dell'isola: ”…credono che vedendo queste cose ogni giorno, io ormai mi sia abituato. Non é così, non ci si abitua mai...”.