Fury

di Marco Modugno
Chi tra i lettori affezionati ricorda la serie di fumetti intitolata "Lo spirito del carro"? Siccome avete alzato la mano solo in tre, stempiati, con un po' di pancia e ben più di qualche ruga di espressione attorno agli occhi, sarà meglio che ‘sta cosa la spieghi a tutti. Alla fine degli anni Settanta l'Editoriale Corno pubblicò un'interessante serie di albi a fumetti dal titolo “Il soldato fantasma”. Ciascun fascicolo conteneva tre avventure targate DC Comics e ambientate nel secondo conflitto mondiale. La prima vedeva come protagonista, appunto, un soldato senza volto che, con l'ausilio di maschere e tecniche di infiltrazione molto sofisticate, compiva missioni al limite dell'impossibile dietro le linee tedesche. La terza era invece dedicata alle avventure di un quartetto di militari americani, “I perdenti”, un marinaio, un fante, un aviatore e un marine, intenti a combattere, oltre alle forze giapponesi sul fronte del Pacifico, anche i fantasmi del loro passato personale. Quella che qui c'interessa di più, però, é la serie di avventure dedicate a “Lo spirito del carro” (“G.I. Combat” in inglese, per chi fosse in voga di approfondimenti).



La serie raccontava le vicende surreali ma assai divertenti dell'equipaggio di un carro armato leggero americano M3 Stuart, durante la campagna d'Europa 1944-45. Nella storia, in forza della sua omonimia con il comandante del mezzo corazzato e con il carro stesso, il fantasma del generale Jeb Stuart, brillante comandante della cavalleria confederata durante la Guerra Civile americana, “adottava” l'equipaggio del veicolo, apparendo di tanto in tanto al capocarro e fornendogli indicazioni tattiche preziose per riuscire a identificare in tempo minacce nemiche, imboscate o addirittura aiutandolo a dirigere il tiro sugli avversari.

Solo chi ha letto i fumetti, e successivamente andrà a vedere Fury, potrà cogliere appieno il senso dell'analogia. Non solo per quel che riguarda una storia interamente costruita attorno all'equipaggio di un singolo carro americano (questa volta uno Sherman M4A3E8 “Easy Eight”), ma per alcuni dettagli decisamente surreali della trama, che a dispetto del realismo preteso, e in certo qual modo realizzato in parecchie scene, riportano indietro il calendario cinematografico ai tempi dei kolossal di propaganda filo-alleata realizzati nei primi quattro o cinque lustri del secondo dopoguerra.

Erano anni che, nel cinema del dopo Spielberg, non si vedevano orde di tedeschi che si lanciavano intruppati a testa bassa, sbraitando ordini senza senso nella loro lingua gutturale, dritti nei settori di tiro di armi automatiche. O unità delle Waffen-SS, cioé reparti d'elite veterani del fronte russo, marciare cantando in ordine chiuso in zona di operazioni, senza predisporre vedette o ricognitori avanzati, lasciandosi individuare da un pivello con una manciata di giorni di naja. O ancora cannoni anticarro da 75mm a canna lunga della Wehrmacht, trincerati e manovrati da equipaggi veterani, mancare completamente e più volte il bersaglio, sparando contro carri armati nemici distanti poche decine di metri, che avanzano in formazione in linea.

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O, infine, panzergrenadieren tedeschi con tanto di distintivo di distruttore di carri sulla manica che sbagliano un tiro di Panzerfaust da dieci metri di distanza (chi capisce un po' di roba militare sa bene come si trattasse di un'arma controcarro micidiale e facilissima da usare e puntare: lo impararono a loro spese gli equipaggi dei T-34 e dei JS1 sovietici, ben più coriacei dello Sherman, quando dovettero vedersela con i ragazzini e i pensionati della Volkssturm tra le rovine di Berlino, pagando un prezzo altissimo in termini di carri distrutti ed equipaggi sterminati). La realtà storica della guerra in Europa, per dirla tutta, racconta l'esatto contrario. Storie come quella del SS-Hauptsturmfuehrer (capitano) Michael Wittmann che a bordo del suo Tiger, il 13 giugno 1944, in un'ora distrusse 21 carri armati e 28 altri mezzi blindati inglesi nei pressi di Villers-Bocage, in Normandia sono sicuramente la punta di un fenomeno peraltro diffuso che vedeva le forze alleate prevalere solo là dove il numero dei soldati e delle truppe a disposizione dei loro comandanti surclassava in modo soverchiante quello dei tedeschi, meglio equipaggiati, addestrati e motivati.

Il regista di Tolleranza Zero é però alla sua prima esperienza nel genere, e attinge dove può. Del miglior Spielberg del Soldato Ryan e del magistrale Band of Brothers, però, ruba poco o niente, limitandosi a fotocopiare qualche scampolo di grand-guignol bellico e di moviole splatter assortite. Svaligia invece a mani basse, più che dalle reali cronache belliche, dal repertorio dei film tratti da romanzi d'avventura di Alistair Mc Lean e compagni, come i sempre godibili Dove osano le aquile, Operazione Crossbow, I cannoni di Navarone. Mostrando al suo pubblico una guerra quasi sempre stereotipata, resa più cruda e realistica dall'evoluzione degli effetti speciali digitali ma lontanissima dalla realtà storica dei fatti realmente avvenuti. Ecco allora che il popolo tedesco si oppone all'invasione alleata solo perché costretto dalle solite bieche SS, ecco i cattivi crucchi che massacrano la loro stessa popolazione per rappresaglia, e ancora l'incapacità tattica del nemico che s'immola a decine di soldati alla volta sotto il tiro implacabile di un pugno di eroi americani dalla mira infallibile degna dei vice sceriffi dell'OK Corral. La storia é scritta dal vincitore, detto quanto mai azzeccato quando si parla dei film di Hollywood del secondo dopoguerra.

Poi però, grazie anche alla doccia gelata del Vietnam e al successivo disgelo del blocco sovietico, é maturata la coscienza dei cineasti di maggior spessore, come lo Spielberg già citato o il Clint Eastwood della dilogia di Iwo-Jima, pronti a ricordarci finalmente che in guerra tutti i soldati possono diventare carogne e assassini, senza distinzione di colore o bandiera. Si vede che Ayer ha presente il concetto, quando mostra il lato peggiore di un Brad Pitt spietato, (quasi) ai livelli del tarantiniano Inglorious Basterds, o quando si cimenta nell'unica, insopportabilmente lunga, sequenza di cinema d'autore, se così si può dire. Quella ambientata nel villaggio tedesco appena conquistato, a tavola, capace di strappare sbadigli anche alle fan più sfegatate della dolce metà di Angelina.



La confusione, la commistione di generi diversi, sembra però il filo conduttore del soggetto e della sceneggiatura, anch'esse parto del lavoro del cineasta americano, che altalenano tra il film di propaganda, appunto, nel quale un comandante veterano di Tiger in vantaggio tattico riesce a “dimenticare” per ben tre volte di fare fuoco contro uno Sherman che sta tentando di mettersi alle sue spalle, negandosi la possibilità di un poker praticamente servito, e il film di condanna contro la guerra, con le scene delle rappresaglie e delle uccisioni a sangue freddo portate avanti, bontà sua, da entrambi gli schieramenti.

Alla fine, comunque, il minestrone risulta decisamente saporito e ha il pregio, fatta appunto eccezione per quell'unica interminabile scena del pranzo, che ha rischiato di permettere alle mie gonadi di rotolare via tra i sedili del cinema, di tenere incollati gli spettatori alla poltrona, indignati magari per certe forzature della realtà decisamente fumettistiche (ecco l'analogia con Lo spirito del carro, ora é chiaro a tutti!) ma (quasi) mai annoiati. E, state pure tranquilli, non manca neppure la giusta dose di epica, pretesa irrinunciabile in una pellicola di guerra, che trova il suo apice nella coinvolgente chiacchierata dell'equipaggio del Fury, all'interno dello scafo del carro, in attesa dell'ultima decisiva battaglia.

Ora che ho detto (quasi) tutto il male possibile di Fury, quindi, é doveroso iniziare a spezzare qualche canna di cannone da 88 a favore del nostro buon regista (nonché soggettista e sceneggiatore). Partendo magari dalla scelta del cast. Pitt é decisamente all'altezza del ruolo, capace di calarsi nel personaggio del capocarro protagonista della pellicola, regalando un'interpretazione convincente sia quando si tratta di far emergere il lato oscuro di “Wardaddy” Collier, sia quando é chiamato a sottolinearne l'aspetto più paterno e positivo.