Fury

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Ma la vera sorpresa viene dai suoi quattro comprimari. Primo tra tutti Shia LaBeouf che, fattosi crescere un paio di baffi e riposti in fondo all'armadietto i suoi modellini di transformers e le foto a tutta pagina di Megan Fox in costume da bagno, mostra al grande pubblico le sue indiscutibili qualità di attore. Il ruolo di Boyd Swan, cannoniere del mezzo, profondamente religioso pur senza rinunciare al pieno affiatamento con i commilitoni, non era facile, meno ancora di quella del cecchino interpretato da Barry Pepper nel kolossal di Spielberg sul D-Day. Missione compiuta anche per Michael Pena, che aveva già lavorato con Ayer in End of Watch, chiamato a interpretare un conducente alcolista e sboccato che sembra tagliato e cucito su misura per lui.

E per Jon Bernthal, il caricatore Grady Travis del gruppo, con il suo accento da bifolco, le sue mani enormi così adatte a infilare proiettili perforanti nella culatta del cannone 76 lungo del Fury, e la sua sorprendente umanità, che affiora solo di rado, nascosta sotto la scorza dura del ragazzo di campagna che si é sempre dovuto arrangiare. Alla fine, a scapito dai fiumi d'inchiostro versati a suo favore sui fogli del materiale stampa fornitoci, il meno convincente del quintetto é Norman Ellison, il dattilografo sbattuto in prima linea dalla carenza di uomini, interpretato da un Logan Lehrman troppo calmo e subito padrone di sé, quando uno si ricorda che il film é ambientato nell'arco di sole ventiquattrore dal suo arrivo al fronte.

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Fenomenale anche la precisione nella ricostruzione di armi, equipaggiamenti e uniformi. La scelta dell'Inghilterra come location per le riprese ha permesso ad Ayer di ottenere l'utilizzo dell'ultimo carro armato Tiger I marciante e funzionante esistente al mondo. Per una volta, gli appassionati “bullonari” tireranno un sospiro di sollievo nel vedere che il nemico utilizza un vero panzer, invece dei soliti T34 russi truccati che erano toccati perfino a Spielberg. Fango, esplosioni, suoni, scenari sfiorano il realismo di un cinegiornale d'epoca e il fatto che, per qualche sbavatura di troppo nella credibilità della trama, il film non riesca che a colpire di striscio l'obiettivo di diventare un grande classico del genere, lascia la bocca amara.

Il senso d'incompiuto si avverte perfino nei dettagli, nelle storie dei personaggi lasciate in sospeso. Nessuno si disturba a spiegarci perché Wardaddy parli un tedesco fluente, o dove si sia procurato le ustioni che gli deturpano la schiena. Nulla viene detto, se non qualche frase di circostanza, del povero mitragliere di scafo morto che Norman é chiamato a sostituire. E anche le biografie degli altri protagonisti sono un po' troppo solo abbozzate, come se il film, invece di essere una pellicola a sé stante, fosse invece il lungo pilota di una serie TV (per forza di cose ambientata nel periodo che precede gli eventi narrati nel lungometraggio) che avrà il compito di dirci di più, aiutandoci a conoscerli nelle loro sfaccettature nascoste.

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La sensazione dominante che ti resta addosso, quando esci dopo aver visto Fury, é che manchi qualcosa. Che avrebbe potuto essere un film eccezionale, nonostante sia concentrato su un lasso temporale e su vicende umane estremamente circoscritte, pericolo che Spielberg aveva scongiurato girando, come prologo delle vicende dei rangers di Miller in Normandia, quella terribile prima mezz'ora sulle sabbie insanguinate di Omaha Beach. Di certo gli appassionati del cinema di guerra d'azione si divertiranno a vederlo. Non tutti, però, vorranno rivederlo ancora, e ancora, e ancora. Come ci succede quando andiamo a vedere una pellicola che sembra come tutti le altre e che invece poi, per qualche motivo, si rivela in realtà un classico che non ci stancheremo mai di rivedere. Come il dolorosissimo, adrenalinico, meraviglioso Black Hawk Down di Ridley Scott. O Il nemico alle porte, magnifico affresco annaudiano della battaglia di Stalingrado.

La missione impossibile del Fury, nello scenario suggestivo di una Germania invasa che ha visto sfumare anche l'ultima opportunità di riscossa nelle Ardenne ma che non si rassegna ad arrendersi, nonostante la tempesta di bombe che annienta una dopo l'altra le sue città, giorno dopo giorno, notte dopo notte, ricorda un po' quella del B-17 Memphis Belle, celebrata da una troppo agiografica pellicola del 1990, con Matthew Modine come protagonista. La guerra mondiale é in procinto di essere vinta e i nostri eroi non hanno dubbio circa il fatto di essere loro i “buoni” che ne scriveranno, foss'anche con il sangue di chissà quanti altri morti, la parola fine.

Stesso lo spirito, diversissimo il finale, cui evito di accennare per non beccarmi una palla da cecchino dritta nell'elmetto, limitandomi ad annunciarvi che l'ultimo minuto del film ospita anche uno dei suoi momenti più poetici e toccanti. Il miglior generale che gli americani riuscirono a mettere in campo nella Seconda Guerra Mondiale, George S. Patton, dichiarò una volta che “Lo scopo della guerra non é dare la vita per il tuo Paese, ma piuttosto fare in modo che gli altri bastardi la diano per il loro”. Poco ma sicuro che, se lo avesse sentito dire così, il primo sergente Don “Wardaddy” Collier della seconda divisione corazzata dell'esercito americano avrebbe annuito. In silenzio.

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