Gloria Bell

Virginia Woolf aveva una stanza tutta per sé, la 58enne Julianne Moore si prende una pellicola tutta per sé, facendosi girare attorno un’operazione che funziona proprio grazie alla sua presenza. Torniamo però all’inizio di questa storia, che non comincia nel 2019, quando Gloria Bell arriva nelle sale italiane, bensì nel 2013.

In quell’anno un giovane regista cileno di nome Sebastián Lelio ultima il suo quarto lungometraggio, Gloria. Il titolo del film è anche il nome della protagonista, oltre che a un espediente molto riuscito per creare un crescendo emotivo che culmina proprio con la versione ispanica della celebre canzone di Umberto Tozzi, in una scena di ballo sul gran finale del film. La pellicola ottiene una certa fortuna, proprio per come ruota tutta attorno alla sua protagonista. Gloria è un film com una sensibilità tutta particolare, che sa cogliere appieno le sottili inquietudini e i fugaci presagi di una donna normale, uno spirito libero i cui figli hanno lasciato il nido e il divorzio ha riportato allo stato di donna single, vicina alla terza età ma ancora viva e vitale, facilmente desiderabile.

Questo tipo di ritratto emotivo diventerà poi il marchio di fabbrica del regista cileno: la sua versione ulteriormente raffinata, queer ed emotivamente dirompente, Una donna fantastica, gli varrà un Oscar, il primo mai vinto da un regista cileno. Perché però raccontarvi di Gloria il film cileno se questa è la recensione di Gloria Bell, un film americano con protagonista Julianne Moore? Perché questo è più di un semplice, innocuo e inutile remake: è una riproposizione quasi pedissequa di quel film e quel personaggio, il tutto traslato in contesto americano.

L’operazione è tanto pigra da portarsi dietro persino il regista; l’alleanza di comodo permette a Sebastián Lelio di continuare la sua esplorazione del contesto cinematografico statunitense dopo Disobedience e a Julianne Moore di ritagliarsi un ruolo da assoluta protagonista producendo da sé un piccolo film su cui Hollywood - che non ama notoriamente i personaggi femminili over 50 - non punterebbe mai. Il cinema sudamericano invece ha una lunga tradizione in questo senso; basti pensare al bellissimo Aquarius, il film brasiliano con protagonista una superba Sônia Braga visto a Cannes qualche anno fa.

Il punto è: ne valeva la pena? Per Julianne Moore, sicuramente sì. Lei sa mettersi al centro della scena come poche, sa riflettere i cambiamenti umorali della protagonista con grande intuitività, vestendo la pelle di Gloria in maniera convincente, ancorché meno autentica di chi la preceduta (l’ottima Paulina García). Discorso a parte merita la regia di Sebastián Lelio, che quasi si ripete e ricalca la sua prova precedente, senza però quel calore dei suoi progetti cileni. Di fatto la storia è inserita ma non adattata al contesto statunitense e appare se non snaturata, meno vibrante. Inoltre la presenza di Moore e Turturro dà un’inevitabile patinatura hollywoodiana alla faccenda: ci sono meno rughe, meno realismo, meno quotidianità con certi visi, certe alture sullo schermo. Solo nel gran finale si riconosce dietro la cinepresa il tocco di Lelio.