In Grand Tour, il punto non è capire, ma sentire: la recensione del film
In Grand Tour bisogna perdersi per trovarci dentro emozioni che talvolta neppure sapevamo di provare: il tour asiatico di Miguel Gomes è un viaggio indimenticabile, anche quando allucinato.
Se il cinema è sogno, Miguel Gomes è il giostraio che apre Grand Tour. Un umile lavoratore che vive a Burma che chiude gli occhi e sogna un’altra epoca, altre persone e una storia d’amore così vivida che sembra vera. Il regista portoghese ha già messo le mani avanti sin dall'antefatto: è tutto un sogno. Il sogno di un giostraio che assolda un gruppo di ragazzini per azionare una ruota panoramica a mano, appendendosi alle carrozze per farla ruotare, perché non è collegata all'elettricità. Forse nemmeno un bel sogno, ma sicuramente uno che rimane addosso al risveglio.
Per chi ha un po’ di dimestichezza con il cinema portoghese, Grand Tour è un film che rivela da subito la sua nazionalità, per come flirta spudoratamente con il realismo magico, con il lirismo, con la dimensione onirica, tenendosi ben lontano dalle certezze narrative e temporali. Detta brutale, quando ci si siede in sala per un film di Miguel Gomes il punto non è mai chiaro e definito, quanto suggerito con una serie di suggestioni. Ciò che ci vuole dire, le emozioni che ci vuole far provare, sono come una nebbia che rende meno chiari i confini temporali e logici delle sue storie. Il punto è l'esperienza, la possibilità che susciti una risposta emozionale, non il racconto, che a fine visione è anche complesso da restituire a parole.
In Grand Tour però c’è un punto fermo, un chiaro itinerario geografico. I due protagonisti della storia infatti sono una coppia di futuri sposi che si rincorre per mezzo continente asiatico in un lungo e tortuoso viaggio nel pieno del colonialismo inglese d’inizio secolo. È il 1918, in teoria. Un funzionario dell'Impero britannico di nome Edward fugge dalla fidanzata Molly arrivata a Rangoon, Birmania, per sposarlo. Edward si muove d’istinto, preda di un timore inspiegato, così come sono misteriosi i metodi con cui i telegrammi di lei riescono sempre a rintracciarlo, annunciandone l’arrivo e scatenando una nuova fuga di lui.
Edward e il film scivolano per tutto il sud est asiatico, compiendo il Grand Tour del titolo: Singapore, Bangkok, Saigon, Osaka, Shanghai, Tibet e molte altre fermate, tra giungla e metropoli, corti di principi e povere case di umili servitori, combattimenti di galli e karaoke. Una voce fuori campo racconta prima la fuga di Edward, poi l’inseguimento di Molly, ma ecco che a ogni tappa la voce scivola nell’identità linguistica del luogo in cui i due si trovano - anche se mai insieme. Il voice over passa dal vietnamita al giapponese al tibetano, la storia novecentesca s’insinua nelle nostre orecchie mentre davanti agli occhi ci scorre in un elegantissimo bianco e nero una raccolta di bizzarrie asiatiche dei giorni nostri, in un continente dalle mille anime in cui il colonialismo occidentale è stato inglobato e assimilato nella cultura locale, che non è mai uscita vinta.
Edward fugge tra i bambù, ma nella foresta si sente il trillo dei cellulari. Le marionette raccontano storie millenarie danzando e proiettando ombre, ma poi in un crescendo musicale straussiano vediamo un’onda di motorini gettarsi nel traffico. Perché? è la domanda sbagliata. È la domanda che pone un occidentale di fronte a un Oriente che rimane sempre inconoscibile per quanto lo si esplori. Lo dice lo stesso film, lo sussurra all’orecchio di Edward: “l’uomo bianco non è in grado di comprendere le antiche tradizioni orientali: lo spaventano”. Tanto che sono Edward e Molly, in modi differenti, a venire assimilati, inglobati, annientati. Entrambi fiaccati da malattie misteriose, entrambi con lo sguardo via via più folle, le motivazioni iniziale tramutate in ossessioni irrazionali.
Da portoghese, cosa ci Gomes in un Oriente che nemmeno lui può pienamente capire? Dato che il suo cinema non spiega ma mostra racconta quella fascinazione di contrasti culturali che cantava Battiato in “Centro di gravità permanente”: Grand Tour è popolato di vecchie bretoni “con un cappello e un ombrello di carta di riso e di bambù”, momenti da lui filmati con grande maestria in cui Occidente e Oriente si sono scontrati e ne uscito fuori qualcosa di bizzarro ma, a modo suo, bellissimo. C’è per esempio un uomo sovrappeso e malvestito in un ristorante di Saigon che si alza e canta Wy Way di Sinatra e poi si commuove, perché quella canzone lontanissima nello spazio e nel tempo gli è arrivata dritta al cuore.
Se Grand Tour funziona e arriva al cuore dello spettatore, funziona proprio così. Non è certo un viaggio facile però, perché bisogna abbassare le proprie difese - moderne, occidentali, commerciali - lasciandosi sussurrare suggestioni e confessioni finché qualcosa non attecchisce e non è detto che lo faccia.
Gomes in fin dei conti racconta la storia d’amore tra due persone a modo loro spaventate dalla facilità con cui potrebbero stare insieme. Quindi preferiscono alla sicurezza dell’unione una costante fuga. Edward scivola in una vita bohemienne, perseguitato da Molly e dall’ombra che avvolge la sua professione (come il protagonista di Pacifiction di Albert Serra, c’è più di un sospetto che traffichi e maneggi in faccende coloniali e politiche). Molly a sua volta, con la sua risata irritate e la sua incrollabile sicurezza di sé, scivola nell’assoluta ossessione di ritrovare un uomo che non vede da anni. Se la prima parte della storia racconta la fuga di lui e la messa a fuoco di come, nei fatti, lei gli manchi, la seconda diventa l’inseguimento di lei, la discesa in una pazzia differente da quella di Edward, ma non meno ossessiva.
Nella vita vera si mancano, Edward e Molly, letteralmente ed emozionalmente. Una tragedia amorosa. Ma non siamo nella vita vera, Gomes ci ricorda sempre, siamo al cinema, dove ogni cosa è sogno e, se si scivola nella tristezza, ci si può sempre svegliare e scrivere una storia differente.
Durata: 129'
Nazione: Portogallo
Voto
Redazione
Grand Tour
Durante la tappa giapponese di Edward, un monaco spiega che "in Giappone le ombre servono per mostrare": è la stessa cosa che succede nel bianco e nero di questo film che suggerisce attraverso le sue sfumature, senza mai rivelare. Onore al merito a Lucky Red che, con un colpo di testa e momento di follia non inferiori a quello dei due protagonisti del film, distribuisce in Italia Grand Tour a pochi mesi dal passaggio a Cannes. Non è un film facile da proporre al pubblico, non è un film che abbia di default un pubblico, mancando di quella conseguenzialità e concretezza che diamo per scontate come punto di partenza per ogni storia. Il bello del cinema di Gomes però è proprio capire dove si può finire quando le certezze vengono sfilate da sotto i nostri piedi, sin dall’inizio della pellicola. Vale la pena rischiare.