Headshot, la recensione dell’esport thriller di matrice italiana
L’esordiente Niko Maggi ci racconta qual è la distanza che intercorre tra il mondo esport e la vita vera, confondendo le due in un’unica entità guidata da un futuristico deep web.
The Last of Us ha saputo trasporre sapientemente i propri contenuti videoludici in una serie televisiva che per 9 settimane ha saputo tenerci incollati, di lunedì in lunedì, sulle reti di Sky Atlantic e di NOW, ma ha rappresentato un momento più unico che raro del mondo videoludico trasposto sul grande o piccolo schermo. D’altronde, il più recente esempio di Resident Evil su Netflix non ci ha saputo coinvolgere allo stesso modo, anzi ha lasciato non pochi stralci di incertezza e indecisione sulla critica e sul pubblico. Raccontare il videogioco al cinema, quindi, resta un’operazione complessa, difficile, figurarsi farlo con gli esport. Eppure, Niko Maggi, regista al suo esordio, non ha saputo trattenersi e ha voluto proporci Headshot, un thriller esportivo a tutto tondo
Il perma-death nella vita vera
Al cinema per soli tre giorni, in attesa di una distribuzione più fitta su un’eventuale piattaforma on demand, Headhost ci porta all’interno di un mondo dominato da FoXMinD, al secolo noto come Chris (Alessandro Bedetti), un giocatore infallibile pad alla mano, in grado di attirare su di sé la grande attenzione del pubblico e dei suoi follower. Chris viene convocato in una sorta di battle royale innovativa, che lo vede coinvolto, da Deep Oblivion, un’organizzazione misteriosa che sembra quasi voler richiamare gli Anonymus, in un esport a tinte realistiche, che li porterà dalla scrivania a una battaglia per la sopravvivenza che si fa tangibile e reale.
L’obiettivo della trama, oltre a mettere a nudo quella che è la condizione dei videogiochi, sembra essere proprio quella di risaltare quanto il mondo reale sia distante da quello virtuale: a più riprese viene affidato ai protagonisti l’assunto peri l quale loro sono semplicemente dei giocatori muniti di fucile, non in grado di sopravvivere a minacce del genere. D’altronde, il Deep Oblivion metterà presto sulle loro tracce un Boia intenzionato a regalare loro un perma-death, che li porterà a una morte per niente indolore, anzi. Le reference che troviamo sono innumerevoli, perché lo stesso Niko Maggi ha voluto a più riprese citare videogiochi che hanno costruito la sua adolescenza, da Metal Gear all’inevitabile Call of Duty: una miscellania di contenuti che gli ha permesso di far sì che a livello registico il film funzionasse per quelle che sono le rese sceniche.
Headshot: Un’attenta ricostruzione reale della finzione
Si prova quasi a emulare il genere dello screenlife (di recente tornato al cinema con Missing, tra l’altro), nel quale si crea un mondo digitale e si racconta tutto attraverso lo schermo di un computer o di un device digitale. Headshot ci prova spesso, portandoci in una soggettiva da bodycam e go-pro, oltre che droni, che emulano non solo il buffering della rete, ma anche un universo che siamo abituati a vedere e osservare attraverso Twitch, qui riproposto in veste di Zzip. C’è un attento lavoro di ricostruzione del vero, per annullare la distanza dalla finzione e portarci a godere di dettagliate chat, tanto in italiano quanto in altre lingue (che diventa anche interessare tradurre per capire cosa Maggi e la sua troupe hanno inserito come easter egg), così come di dispendio di energie per far sì che tra piani sequenza e campi lunghissimi possano essere giustificati.
Il vero problema di Headshot, forse un po’ il suo limite, è il non riuscire a farci empatizzare con i ragazzi, il volerci raccontare un cast troppo vasto che ci impedisce, nell’arco di un’ora e mezza di film, di capire quali sono le loro personalità, i loro caratteri. Non si ha la percezione di personaggi ben delineati e la sceneggiatura di Gabriele Braschi non convince fino alla fine, non tanto per la struttura in sé, che funziona, quanto per la profondità del world building e dei personaggi stessi. Si percepisce, infine, un forte sforzo, anche da questo punto di vista, di avvicinarsi a un pubblico più giovanile usando lo slang che appartiene agli esport moderni, così da creare un rapporto che in comunicazione potremmo quasi accostare allo human to human con lo spettatore più giovane.
Headshot è un film che sperimenta e fa bene a farlo, perché nella visione registica di Maggi ci sono tante idee che riescono a essere sfruttate a dovere, ma allo stesso tempo va considerato che Headshot è un film indipendente, un’opera prima, nonché un film italiano: tutte attenuanti del caso che non ci impediscono, però, di dire che dal punto di vista tecnico è stato eseguito un lavoro di grande finezza, che ci lascia ancora una volta capire quanto in Italia un altro cinema sia possibile, cosa che d’altronde già Mainetti con il suo Jeeg Robot (e forse anche con il suo cortometraggio “Basette”) ci aveva già fatto capire e trasmesso. Ecco, quella tradizione è bene che diventi una stella polare per chi, come d’altronde anche Maggi, vuole provare qualcosa di diverso.
Voto
Redazione
Headshot, la recensione dell’esport thriller di matrice italiana
Tirando le somme, quindi, Headshot è un buon film per la resa tecnica, in grado di metterci dinanzi anche a un buon lavoro autoriale da parte del direttore della fotografia, che non si sofferma su elementi scolastici e illuminazioni basic, anzi gioca molto con colori forti e con luci stroboscopiche. Il grande cruccio dinanzi al quale ci siamo trovati è proprio la profondità della narrazione, che ci ha messo dinanzi a dei personaggi ben interpretati, ma troppo piatti, che quasi si fa fatica a far entrare nel proprio cuore e renderli veri, tangibili. Pur, quindi, dovendo sottolineare queste criticità in sede di analisi, non possiamo non sottolineare il coraggio avuto dalla troupe capitanata da un esordiente nel realizzare un prodotto che vuole parlare ai giovani e che vuole trasmettere tutta la passione che un videogiocatore come è il regista, Maggi, ha per un medium che si sta evolvendo sempre di più.