Kevin, pietà: Horizon 2 non solo è ripetitivo e noioso, ma anche dannoso. La recensione dell’epopea western di Kevin Costner
Dopo il sonoro flop del primo capitolo, Kevin Costner torna con un secondo film che sfora le tre ore ma si limita a ripetere quanto fatto nel primo e, per giunta, con delle scelte molto discutibili.
Questa primavera al primo capitolo di Horizon: An American Saga, recensito dal Festival di Cannes, avevo dato una sufficienza stiracchiata. Ben conoscendo la mia scarsa attitudine al genere, mi ero detta che un usato sicuro senza niente da dire avrebbe comunque potuto fare la gioia dei fan del filone western, soprattutto quelli un po’ più attempati. Questi spettatori avrebbero ritrovato nel ritorno di Kevin Costner dietro la cinepresa un ultimo singulto di come si facevano (con poche idee) i western qualche decennio fa. La critica statunitense e internazionale erano state assai meno tenere della sottoscritta, affossando con ferocia il progetto, dando a Costner dell’anziano bollito, incapace persino d'intrattenere.
Dato che a Cannes mi ero solo moderatamente annoiata durante la visione dell’epopea western divisa in tre capitoli da tre ore ciascuno e dedicata alla conquista della frontiera statunitense a metà Ottocento, ho deciso di sottopormi al secondo capitolo, strappato in extremis dal direttore della Mostra Alberto Barbera (noto fan del genere western) come titolo con cui arricchire la sezione fiction del fuori concorso. Non avesse insistito il Direttore, sarebbe stato meglio. Dopo due ore e passa delle tre e dieci del film, ho abbandonato la sala, decisione che prendo assai rado. Non per noia, non per tedio, bensì per disgusto. A Horizon ero pronta a perdonare tutti i difetti del primo capitolo, aggravati dal fatto che giunti al secondo assumono un retrogusto di recidiva. Quello che proprio non gli posso perdonare, l’unico aspetto che mi ha colto di sorpresa (in negativo) è l’uso mercenario che fa della violenza, specie di quella che si consuma ai danni delle donne.
Horizon: dove eravamo rimasti
Ritorniamo esattamente dove eravamo rimasti, ritroviamo i personaggi sparpagliati qua e là sulla linea della frontiera statunitense, in rapido avanzamento verso ovest. C’è chi è tornato nell’insediamento distrutto dagli indiani, c’è chi procede con più consapevolezza con la propria carovana e poi c’è il coriaceo Kevin Costner che si occupa di garantire la sicurezza di un convoglio ferroviario che trasporta cavalli.
La storia riparte da dove si era interrotta, senza un senso di nuovo inizio, senza una divisione unitaria o tonale che separi nettamente il primo dal secondo capitolo. Con le sue scelte, Costner ci condanna ad essere ripetitivi quanto il suo Horizon. Già naturalmente diviso in capitoli, già provvisto di un minutaggio che in sala fatica a giustificare, la saga di frontiera di Costner continua a sembrare una serie mancata che si ostina a spacciarsi per film.
I personaggi stavotla sono costretti a inchiodare gli zoccoli al terreno come muli testardi, a ricommettere gli errori del recente passato per dare il modo alla storia di ritrovare slancio, di cavar fuori da qualche parte uno straccio di conflitto con cui continuare la narrazione. Così il personaggio di Sienna Miller prende la decisione incomprensibile di ritornare all’avamposto da dove lei e la figlia erano sfuggite a un massacro a opera di un focoso capo dei nativi, dove era perito il marito e il fratellino di lei le due l'avevano scampata per un incredibile colpo di fortuna. C’è un qualche tipo d'informazione che ci garantisca che la tragedia non si ripeta? No, eppure la donna insiste nel voler vivere tra i ruderi della sua ex casa incendiata, anche se non ha abbastanza legname per ricostruirla.
L'orizzonte di Costner ignora la mutata sensibilità del pubblico
Horizon è una serie così vecchia maniera che inciampa in stereotipi e caratterizzazioni che 30 anni fa non avrebbero fatto alzare un sopracciglio, mentre oggi sono sull’orlo dell’offensivo. Ignaro o sordo alla mutata sensibilità del pubblico, Costner introduce l’arrivo di una piccola comunità cinese riproponendo il tema della serie con un’insistita rielaborazione musicale con tutti i suoni associati all’Asia. Uno scivolone fatto in buona fede ma quanto poco sarebbe bastato per evitarlo.
Ben più grave e non giustificabile con ragioni anagrafiche o sviste è l’utilizzo superficiale e mercenario che il secondo capitolo di Horizon fa della violenza, specialmente quella perpetrata sul corpo delle donne. Torniamo al filone narrativo della carovana, che in poco più di due ore inanella due feroci omicidi (di cui uno con una connotazione particolarmente sinistra) e una lunga serie di violenze sessuali ai danni di un singolo personaggio. Qui emerge tutta la cattiva scrittura di un progetto che ricorre alla violenza estrema per creare quel minimo di tensione per tenere in piedi la narrazione dedicata a questi personaggi.
Horizon fa un uso imperdonabile della violenza sessuale come artificio narrativo
Nella carovana si fa vita comune, una donna rimane sola e viene insediata e assediata da due loschi figuri che fanno parte del convoglio. Subisce una duplice violenza brutale (non mostrata ma chiara nelle sue implicazioni). Non si tratta di un crimine d’occasione, ma del rapimento sotto gli occhi di tutti di una donna, sequestrata sul suo carro, costretta a fare da schiava e a soddisfare le voglie di due uomini nonostante non sia sola e in teoria abbia un marito a cui è legata. La carovana è ricolma di uomini armati che, poco dopo, non esitano a sparare contro un uomo sospettato di un orrendo crimine. Eppure la donna rimane alla mercé dei suoi aguzzini per giorni, venendo sistematicamente picchiata e abusata. Perché nessuno interviene? Non è chiaro.
Quello che è davvero rivoltante è come la serie dica, papale, che siccome nella prima parte di Horizon la donna aveva compiuto la leggerezza di sentirsi “superiore”, di non rimboccarsi le maniche, allora le faccia bene quello che sta passando. Parole che mette in bocca alla donna, in un passaggio che gela il sangue nelle vene. Poco dopo la donna viene pure presa a male parole per un suo tentativo di sfuggire ai suoi aggressori perché, e cito, “ognuno ha i suoi problemi, vedi di risolverti i tuoi”.
La toppa è ancor peggio non del buco, ma della voragine scavata da questo orrendo utilizzo la violenza per dare “crudo realismo di frontiera” alla storia. Quando si dimostra disponibile a entrare in una nuova logica familiare, contrita, pronta a mettere da parte l’orgoglio (dopo che, ribadiamo, tutta la carovana ha intuito cosa le è accaduto senza muovere un dito), ecco che magicamente “gli eroi” prendono le sue difese.
Non è l’unica istanza in cui il secondo film della trilogia di Horizon, messo alle strette e desideroso di aumentare un po’ la posta in gioco, usa la scorciatoia della violenza (specie sulle donne) come mezzuccio per donare un po’ di drammaticità alla trama. Una scelta che non dona più tensione al prodotto finale, ma che disgusterà, a ragione, più di uno spettatore.