I dannati, recensione: la Guerra di Secessione di Minervini si muove tra Confederati, i Tartari e Alessandro Barbero

Il documentarista Minervini passa alla finzione con un sorprendente film storico sulla Guerra di Secessione, profondissimo ma anche difficile da metabolizzare. La recensione di I dannati.

di Elisa Giudici

Roberto Minervini è un grande cantore degli Stati Uniti, che combina insieme lo sguardo partecipe di chi ha un’intima conoscenza delle logiche locali a chi ha un punto di vista originario di altrove, lontano. Il regista, documentarista rinomato a livello internazionale e festivaliero, ha finora prodotto lavori che non lo hanno reso un nome così familiare al grande pubblico. Titoli profetici come Che fare quando il mondo è in fiamme?, presentato nel 2018 a Venezia e capace di intercettare le inquietudini dell’America che sarebbe diventata trumpista, che era già razzista, prima che il Black Lives Matter e le elezioni confermassero quanto Minervini avesse il polso della situazione, più di commentatori politici e corrispondenti giornalistici.

Quest’anno è uno dei due registi che rappresentano l’Italia al Festival di Cannes, che vede una compagine nostrana molto ridotta rispetto alla media degli anni passati. Pochi ma buoni? Il suo I dannati è in concorso nella sezione Un Certain Regard, un sapiente mix di cineasti in crescita e prodotti un po’ troppo di nicchia, un po’ troppo sperimentali per il concorso principale. Una collocazione perfetta per questo titolo. Nonostante Minervini infatti passi alla finzione con un film in costume ambientato durante la Guerra di Secessione statunitense, il suo cinema rimane impegnato e impegnativo da vedere. Per chi è disposto a concentrarsi, l’esperienza è davvero particolare, rara.

I dannati infatti è un film “poco italiano”, per dirla alla Boris, eppure è al contempo la cosa più simile a un film del primo Emanuele Crialese che si veda in sala dai tempi di Nuovomondo (2006). Un racconto dell’America che si fa e si disfa grazie e per colpa della sua prima grande frattura storica e bellica, dove la frontiera si mescola al misticismo, dove si sente una sensibilità autoriale estranea al Nuovo mondo.

Il deserto nevoso dei Confederati

È il 1862 e un manipolo di soldati nordisti viene mandato in avanscoperta nelle terre inabitate nell’Ovest degli Stati non più così uniti. Il gruppetto è formato da un manipolo di uomini di provenienza, estrazione sociale, età assai differenti. Due fratelli adolescenti e il padre, alcuni uomini con evidente esperienza nell’uso delle armi, soldati maturi. La speranza è quella di ricongiungersi entro due settimane con il resto della truppa dopo aver trovato un passaggio valicabile, quindi non rimane che procedere giorno per giorno. Si ammazza il tempo giocando a baseball e a poker, leggendo la Bibbia, insegnando ai più giovani a mirare con le colt e i nuovi fucili in dotazione all’unità.

I sudisti però fanno la loro comparsa - o quanto meno, i loro colpi sparati in lontananza - quindi il gruppo si divide, si frammenta. I dannati racconta il destino di un manipolo di uomini che si è unito alla guerra ispirato da ideali e motivazioni differenti e spinto dall’asperità del paesaggio naturale circostante e dall’inquietante impressione che il nemico sia sempre presente a mettersi a nudo. Dopo aver raccontato le inquietudini del presente statunitense, Minervini va alla ricerca delle radici delle fratture della nazione e la Guerra di Secessione è il punto d'arrivo delle sue riflessioni, il punto di partenza della storia. 

Il cinema di Minervini è fatto di dita sporche che caricano pistole inquadrate in primo piano, di facce sconosciute e perfette nella loro irregolarità e imperfezione per raccontare questa guerra, questa umanità che vive una nazione che si sta costruendo lungo una frontiera inesplorata e inospitale. Gli interpreti che compongono il cast -  Jeremiah Knupp, René W. Solomon, Cuyler Ballenger, Noah Carlson, Judah Carlson, Tim Carlson - sono alla loro prima interpretazione, battezzano con il loro nome quello del personaggio. Se quando girava documentari Minervini amava contaminarli con elementi di ricostruzione e fiction, qui succede l’opposto. C’è la voglia di catturare piccoli momenti quotidiani bellici e umani come se immortalati dalla vita reale, non su un set.

Girato tra le nevi e gli altopiani del Montana, integrato con riprese in Piemonte e integrato da un uso sapiente degli effetti visivi dell’italiana Imago (che risultano praticamente invisibili), I dannati ricorda un certo cinema di stasi, dove la guerra che non c’è scava dentro più delle brevi, violente schermaglie con il nemico. Un deserto dei Tartari dove il conflitto si fa vero ma i sudisti sono ombre il cui arrivo è annunciato sempre lo scoppio o il flash di uno sparo in lontananza, dall’ombra in controluce di uomini a cavallo.

Cosa ti fa la guerra, così ti rende uomo, cosa ti scava dentro la vita

Nei suoi passaggi di scrittura più belli, Minervini porta i suoi personaggi a confrontarsi sul piano esistenziale. I dannati è anche un film di padri e figli, di ragazzi che hanno fretta di diventare uomini e di adulti ancora alla ricerca della motivazione per cui vivere, per cui combattere questa guerra. C’è un bellissimo dialogo sulla fede che presto scivola sul motivo che ha spinto ciascuno a entrare in una guerra (per volere di Dio, contro il dettame della propria confessione religiosa, per fare ciò che è giusto rispetto all’umanità incatenata, per sopravvivere). In un altro passaggio un soldato adulto assiste con tenerezza alla prima crisi di fede del 16enne commilitone che cerca di proteggere e gli dice che ciò che lo renderà un uomo “è imparare a perdonare sé stessi e gli altri” dopo “aver passato tutta la vita a cercare di tornare indietro da quella rabbia che provavo da adolescente e che è diventata tutta la mia identità”.

La ricerca storica è evidente, puntualissima. Lo si intuisce dai costumi indossati e da quelli a cui si attengono i soldati, da riferimenti molto dettagliati come il pacifismo degli immaginati di origine tedesca del gruppo dei Dunker. Il genere di pellicola che immaginiamo manderebbe in sollucchero Alessandro Barbero. Minervini la sposa a una regia che cammina passo a passo a fianco dei soldati, mettendo la cinepresa a cavallo, la camera a spalla a tallonare le spalle di uno dei fanti che marcia. Più il film si sposa su un lato esistenziale più emergono i primi piani, la comunione con la natura, la composizione poetica e disperata di un cavallo che non riesce a liberarsi, di un uomo che nel pieno della disperazione tira indietro la testa e sorridendo lascia accumulare sul volto i grossi fiocchi di neve che cadono dal cielo.