I migliori giorni, recensione: la commedia italiana è più ammuffita delle feste comandate

I migliori giorni, recensione: la commedia italiana è più ammuffita delle feste comandate

I migliori giorni recensione la commedia italiana è più ammuffita delle feste comandate

La vigilia di Natale, Capodanno, San Valentino, la Festa della Donna: quattro feste comandante tanto irrinunciabili quanto stanche, appesantite da rituali consumistici e riti svuotati di significato, ma capaci di tirar fuori le piccole e le ipocrisie di chi le festeggia. I registi e sceneggiatori Massimiliano Bruno ed Edoardo Leo guidano una commedia antologica divisa in quattro episodi, ognuno ambientato durante una festa comandata differente e con sempre nuovi protagonisti.

Il lancio quasi in sordina del film I migliori giorni (lievemente respingente persino nell’ordine controintuitivo delle parole del titolo) è purtroppo un indizio rilevante sul livello mediocre raggiunto dal risultato finale. A parte qualche sparuta risata, I migliori giorni è una commedia italiana stantia e banale. Molto, molto più dei comportamenti e dei vizi che vorrebbe stigmatizzare. Quattro cortometraggi da poco meno di mezz’ora ciascuno, contraddistinti da una povertà di spunti tali che per funzionare davvero dovrebbero durare la metà del tempo o trovare il doppio delle idee da mettere in scena. Certo qualche interprete ispirato e qualche colpo di scena sorprendente c’è, ma è davvero poca cosa rispetto al film che vorrebbe in qualche modo eguagliare, ovvero Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese.

I migliori giorni, recensione: la commedia italiana è più ammuffita delle feste comandate

La vigilia di Natale

Il grande carrozzone della commedia antologica non poteva che partire dalla cena della Vigilia, con donna politica desiderosa di fare bella figura col dirigente di partito di sinistra che implora i due fratelli di non farle fare brutte figure a tavola. Più facile a dirsi che a farsi, dato che i due prendono parte alla cena con il malcelato desiderio che l’altro faccia o dica qualcosa che consenta loro di attaccarsi frontalmente. Uno ridanciano evasore e convintissimo antivaccinista, l’altro attoruncolo depresso, senza affetti e sostenitore della tolleranza zero, daranno prevedibilmente il via a baruffe chioggiotte con tanto di fidanzata procace e un po’ volgare di contorno.

L’episodio iniziale è uno dei più solidi, perché quantomeno prova a parlare dello strettamente attuale. La contrapposizione tra novax e ortodossi del vaccino però è spuntata, perché non c’è la capacità o la voglia di guardare davvero dentro all’ipocrisia dei personaggi, non nel modo in cui la commedia italiana classica, la più feroce, faceva. Amici miei è distante così tanti anni luce che non vale nemmeno la pena di tirarlo in ballo in una comparazione, per sottolineare quanto Edoardo Leo qui (sia come attore sia come regista) fatichi a essere incisivo.

L’errore capitale di La vigilia di Natale è di essere troppo titubante. Non si prende democristianamente le parti di nessuno, non si affonda mai la lama. Si vivacchia sui contrasti di due parti cieche alle proprie debolezze e iper-critiche rispetto allo schieramento opposto. Non si ha nemmeno il coraggio di cambiare un po’ le carte in tavola e rendere l’ambiziosa sorella politicamente una carrierista della rampante destra populista italiana, ripiegando sull’usato sicuro della borghese progressista radical chic.

Capodanno

L’episodio meno ispirato e più datato del film vede la famiglia di un ricco imprenditore politicante passare la notte di San Silvestro insieme ai poveri di una comunità che fornisce pasti caldi ai bisognosi, con l’intento mercenario di ripulirsi l’immagine dopo scandali e uscite infelici. Questo secondo episodio potrebbe essere stato girato trent’anni fa, tanto l’interpretazione della contrapposizione tra signorotto borghese interpretato da Max Tortora e diseredati sfrontati è trita e banale. Quando entra in scena il personaggio di Alberto (interpretato da Paolo Calabresi) sin dalla prima inquadratura, sappiamo che ruolo giocherà . È perfino scontato indovinare la sua professione, importante ai fini del ridotto sviluppo narrativo dell’episodio.

Capodanno è un episodio più vicino ai film e ai personaggi di Carlo Verdone, caratterizzati da una forza più mortifera che vitale, da un’ironia che sotto lo strato brillante è molto malinconica, quasi depressiva. Il punto è che solo il denaro divide due uomini che non credono più in nulla, se non nella mancanza di valore e di affetti nelle proprie vite. È l’impostazione narrativa del film, insieme all’obbligo morale di far apparire i ricchi disgustosi e distaccati a condannare in partenza questo spezzone, come il meno riuscito del film.

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San Valentino

Luca Argentero è il protagonista dell’episodio che guarda alla commedia sentimentale statunitense d’inizio Millennio, quella che nasconde il suo romanticismo pragmatico sotto uno strato apparente di distacco e disillusione. Argentero interpreta un uomo che si lascia mantenere dalla moglie alpha (una Valentina Lodovini dalla sensualità profonda e avvolgente, che ricorda quella di Monica Bellucci) salvo poi tenere la giovanissima amante sulle spine, in attesa che lui chieda il divorzio per mettersi ufficialmente con lei. Il protagonista non sa che la ragazza (interpretata da Greta Scarano) è a sua volta legata sentimentalmente a quella che è l’assistente della moglie.

San Valentino propone quindi un quadrilatero amoroso sospeso tra eterosessualità e cauta curiosità queer, che si chiede quanto bisogna affidarsi alla seduzione e all’infedeltà per giudicare lo stato di salute di una coppia che sta insieme da anni. A sorpresa l’episodio riesce a dimostrarsi molto seduttivo, pur rimanendo castigato e lieve. Argentero è messo al centro della scena, rubata però dalla sicurezza in sé con cui Lodovini prova per noia e per sfida a sedurre la sua ombrosa assistente lesbica. Certo non ci sono grandi idee ma la cosa avrebbe anche potuto funzionare, se si avesse avuto un po’ più di coraggio nel dare uno scossone alla storia nel finale. Invece San Valentino sceglie di rassicurare, con una conclusione che tra l’altro contraddice tutti i segnali e le premesse del corto.

8 marzo

La presenza di Claudia Gerini permette a Bruno e Leo di buttarla un po’ in caciara, con un episodio che qua e là brilla per cattiveria, ma che non riesce sfuggire a un risoluzione quasi consolatoria. Come avveniva per l’apertura, anche l’episodio conclusivo di I migliori giorni ha il pregio di avere un sapore contemporaneo. Ci troviamo negli studi televisivi di un contenitore pomeridiano sovranista e frullatore, che passa dal gossip alla cronaca per divertire le casalinghe all’ascolto. Gerini interpreta la conduttrice, un’evidente caricatura di Barbara D’urso, tutta valori familiari e allure popolana. Peccato che la figlia abbia tentato di ammazzarsi e lei ritrovi a condurre la puntata del 8 marzo di ritorno dall’ospedale, con un marito totalmente assente e con una brutta gatta da pelare sul lavoro.

L’episodio sembra ispirarsi a uno scandalo mediatico seguito alla messa in onda di un servizio nella trasmissione pomeridiana di Bianca Guaccero Detto fatto. I social attaccano il programma dopo un servizio in cui si spiegava alle persone all’ascolto come essere sexy mentre si fanno attività quotidiane come fare la spesa. Gerini è la conduttrice a cui emittente e autori chiedono di prendersi la responsabilità per un servizio similmente misogino e qualunquista andato in onda il giorno prima, che ha scatenato l’ira dei social. Segue diniego della conduttrice e scontro con l’autore del programma, un Stefano Fresi fantastico nell’incarnare ora la tenerezza condiscendente ora l’aperta misoginia, ora il cuore di un uomo respinto che si sente alleato, mentore ma comunque e sempre superiore alla conduttrice del suo programma. La sua “creatura”, che tenta di ribellarsi, ma è anch’essa intrisa d’ipocrisia.

Oltre che alle trasmissioni pomeridiane della TV italiana “di pancia” e popolare, 8 marzo s’ispira anche a come Boris racconti lo squallido dietro le quinte della televisione italiana, senza però mai raggiungerne acume e cattiveria. Gerini si presta con entusiasmo a corto, ma a brillare, a sorpresa, è Tiberio Timperi nei panni del co-conduttore parassita e pusillanime, che cambia continuamente squadra per stare sempre dalla parte del giusto. Peccato per il finale stucchevolissimo.

I migliori giorni, recensione: la commedia italiana è più ammuffita delle feste comandate

4.5

Voto

Redazione

TISCALItestatapng

I migliori giorni, recensione: la commedia italiana è più ammuffita delle feste comandate

Qualche sprazzo divertente c’è, ma qui a mancare è una storia interessante a cui assistere, ancor più della comicità: I migliori giorni si dimostra molto più stanco e disilluso delle feste e delle ricorrenze comandante che vorrebbe stigmatizzate.