Il buco - capitolo 2: recensione e spiegazione del finale del film di Netflix
Un'operazione furba da parte di Netflix, che banalizza tutto con il secondo film
La fossa. Si chiama così la struttura al centro del film di Netflix intitolato Il buco - capitolo 2, con un titolo da sequel - ma in realtà si tratta di un prequel - del film del 2019 che ha avuto grande successo sulla piattaforma.
Il buco, film spagnolo diretto da Galder Gaztelu-Urrutia - titolo originale: The Platform - torna con lo stesso regista che ci aveva presentato una sorta di prigione molto, molto particolare. La struttura narrativa era convincente: la curiosità prendeva il sopravvento fin dal principio, spiegandoci man mano come funzionasse la piattaforma che distribuiva cibo ai “detenuti” dei vari livelli.
Già il fatto di intitolare un prequel “capitolo 2” ci fa capire come si tratti di un’operazione piuttosto furba: pensiamo di trovarci di fronte a un sequel e, a distanza di 5 anni, complice l’inizio volutamente confusionario, non ricordiamo i dettagli del primo film. Così ci precipitiamo a rivederlo, ed entrambi i titoli entrano subito nella top 10 dei film più visti su Netflix.
Un’operazione furba, appunto.
Peccato che derivi da quello che è di fatto un errore (voluto, ribadisco) di sceneggiatura estremamente fastidioso. Già nei primissimi istanti assistiamo a scene di lotta e di morte, senza però sapere nulla dei personaggi che ne sono protagonisti. Di conseguenza, non c’è tensione. Di nessun tipo.
Direttamente al centro dell’azione
La sensazione di esserci persi qualcosa è fortissima. Ci sembra di essere entrati al cinema in ritardo, quando il film è già iniziato da 10 minuti e noi abbiamo mancato l’inizio con la premessa narrativa. Ma non è così. Serve tutto allo scopo di farci tornare a rivedere il primo film, per poi scoprire che non cambia nulla: qui siamo di fronte a un prodotto che è volutamene scritto “male” all’inizio, che infrange le regole apposta per spingerci ad approfondire.
Dopo la prima mezz’ora, Il buco - Capitolo 2 inizia a vivere di vita propria.
I due personaggi che rappresentano il centro del nostro universo narrativo, Perempuán (Milena Smit, La ragazza di neve) e Zamiatin (Hovik Keuchkerian Burgui, ex pugile e attore visto in La casa di carta e The Night Manager) stringono un’inusuale e inattesa alleanza, che determina il loro modo di vivere all’interno della fossa. Con il rispetto delle sue regole, spesso infrante da qualcuno che necessita di essere “pacificato”. O, in caso di fallimento, semplicemente tolto di mezzo.
Il concetto di responsabilità e la struttura sociale
Nella fossa esiste una legge. L’unica regola è rispettare la legge e farla rispettare.
È evidente che il concetto di responsabilità individuale, nel sistema sociale della fossa, non esiste più. Chiunque infranga la legge va a pesare su tutti gli altri, anche nel senso della condivisione di responsabilità: se non impedisci a qualcuno di infrangere la legge, ne paghi le conseguenze due volte. Non mangi, magari, e in più vieni punti per non aver rispettato l’unica regola.
La struttura sociale ha delle norme infrangibili. E in quanto struttura sociale, prevede delle definizioni. Ci sono gli Unti, i Barbari, i Lealisti… E tutti si mescolano nella rivoluzione guidata dall’uomo che tutti temono, Daging Babi (Óscar Jaenada, Viaggio al centro della terra). Ma si mescolano nel senso che la confusione regna sovrana. Gli schieramenti non si distinguono più. Il piano perde ogni barlume di logica, man mano che avanza, scendendo verso gli inferi. Ed è voluto, ancora una volta.
La metafora del cane, di cui non parliamo approfonditamente per evitare spoiler non segnalati, è la chiave di lettura di una società dominata dalla specie più crudele del pianeta, ma anche la più stupida. Perché la convinzione di essere la specie dominante per intelligenza crolla sotto il peso dell’innegabile autodistruzione. E l’autodistruzione, si sa, è l’emblema stesso della stupidità.
Mentre l’arte diventa una rappresentazione della vita, ci viene mostrato come la vita degli adulti non sia dissimile da quella dei bambini. Con le stesse pulsioni, gli stessi desideri, le stesse paure e soprattutto la stessa crudeltà. Il gioco dei bambini diventa un’inconsapevole chiave di accesso alla fossa, nell’esperimento più assurdo e crudele che mente umana potesse partorire. Già il fatto di chiedere a qualcuno di mangiare sempre e solo la stessa cosa, ogni giorno, lo anticipa.
Quando poi tutto diventa privo di senso, ai limiti dell’assurdo fantascientifico, ci si avvia a una conclusione che, a quanto pare da ciò che si legge in giro, dovrebbe essere difficile da comprendere.
Tanto che Netflix sull’immagine finale fa comparire la scritta “Hai ancora domande? Guarda Il buco” e offre di avviare la visione del film del 2019.
Non era difficile comprendere l’operazione furbizia, tanto che si capisce ben prima di arrivare in fondo alla questione.
È invece difficile leggere “recensioni” che non comprendono come questo sequel sia in realtà, come anticipato, un prequel.
La spiegazione del finale (SPOILER)
Ingoiando un pezzo della tela che in qualche modo fa da “filtro” al gas usato per impedire ai detenuti di svegliarsi mentre vengono spostati di livello, una volta al mese, la protagonista Perempuán si ritrova a essere l’unica sveglia, cosciente. L’unica detenuta, almeno. La sua ex compagna di cella le aveva spiegato come fingersi morta e avere una possibilità di fuga, facendosi trasportare fino alla cima della fossa insieme ai cadaveri. Ma Perempuán, quando vede il bambino (quello che aveva conquistato la cima della piramide giocando) portato al livello 333, fa una scelta. Sceglie di non fuggire, sacrificandosi per aiutare lui. Lui che, come apprendiamo, avrà un’altra possibilità, mentre la redenzione cercata da Perempuán le costa tutto. Il prezzo più alto: la vita.
Ma è qui che sotto al livello 333, in una rappresentazione neanche troppo metaforica della morte, la nostra ritrova qualcuno del suo passato. Ci ha raccontato la sua storia, di aver causato la morte del figlio dell’uomo che amava. Il suo fidanzato. E quel fidanzato, apprendiamo dalla scena finale, non è altri che Goreng (Ivan Massagué), il protagonista del film del 2019.
Lui arriva dopo Perempuán, quindi questo secondo capitolo ci narra fatti avvenuti prima di quelli de Il buco. Come in fondo conferma la presenza di un altro volto familiare, Trimagasi (Zorion Eguileor), che nel film del 2019 è il compagno di livello di Goreng.
Il buco - capitolo 2 è quindi il prequel de Il buco. E ci dice, senza giri di parole, che per chi causa la morte di un bambino non ci può essere redenzione. C’è una sola cosa. Solo l’oscurità sotto al livello 333, in cui si è circondati da altri zombie (moralmente parlando) destinati alla dannazione eterna.
A meno che non ci sia un terzo capitolo in programma, per spingere gli spettatori a rivedere tre film…