Il figlio di Saul
Grazie a Teodora in questa ricchissima settimana di uscite cinematografiche possiamo vedere anche il film ungherese che ad oggi é il più accreditato per la vittoria nella categoria del miglior film in lingua straniera agli Oscar 2016. Una categoria parecchio snobbata dagli statunitensi ma che rimane un grande riconoscimento per il mondo cinematografico non anglofono, che ha solo quella categoria per entrare nella notte più glamour del cinema mondiale. Stavolta questo onore dovrebbe toccare all'Ungheria, che si é già aggiudicata la vittoria ai Golden Globes; una cavalcata trionfale cominciata a Cannes dove Il figlio di Saul, unica opera prima in concorso, é stato tra i film più chiacchierati ed amati, aggiudicandosi il prestigioso Gran Prix della giuria di Cannes.
Lazslo Nemes ha l'enorme merito di aver saputo dire qualcosa di nuovo e di forte in un filone, quello dedicato all'Olocausto, ricchissimo di pellicole eppure terribilmente impoverito da una generale mancanza d'idee e dall'impaccio che provoca a molti esplorare la disumanità dei campi di concentramento. Con la sua regia tutta camera a spalla, lunghi piani sequenza ripresi correndo alle spalle di un protagonista che si muove frenetico per il campo e tanti, soffocanti primi piani sul suo sguardo vuoto e vitreo, Nemes rende il film una sfida in quattro terzi, una maratona da cui si esce spossati fisicamente ancor prima che emotivamente.
Figlio di Saul é innanzitutto un resoconto duro e senza sconti per lo spettatore, capace di portare come nessun altro la logica industriale della catena di montaggio della morte, vista dalla prospettiva di un membro dei sonderkommando, i prigionieri che si sporcavano le mani al posto dei carnefici, supervisionando l'ingresso e l'uscita dalle camere a gas, mentendo all'ingresso delle docce, pulendo il sangue, bruciando i cadaveri.
Saul fa parte di questo terribile gruppo di prigionieri e ha già interiorizzato la missione disumanizzante della sua piccola casta: godere degli infinitesimali privilegi che comporta (primo tra tutti, non finire nelle docce), lavorare duro, tentare di sopravvivere il più possibile mentre si trascinano corpi e si pulisce il sangue. Sul volto di Géza Rohrig c'é tutta la durezza e la vacuità di chi punta diventare invisibile, fuori e dentro, schivando il sadismo delle SS e inanellando un giorno dietro l'altro, un carico di cadaveri dietro l'altro.
A un certo punto però qualcosa si spezza e Saul vede (o meglio, crede di vedere) l'amato figlio, scampato per caso alle docce. Il ragazzino morirà poco dopo, ma l'equilibrio indifferente di Saul é compromesso: mentre scendiamo nell'inferno del campo ci facciamo strada nella sua lucida follia, quella di voler seppellire il ragazzo secondo il rito ebraico, scovando tra i prigionieri un rabbino, occultandone il cadavere, seppellendolo, mentre i prigionieri organizzano l'ennesimo tentativo di fuga.
Lazslo Nemes ha l'enorme merito di aver saputo dire qualcosa di nuovo e di forte in un filone, quello dedicato all'Olocausto, ricchissimo di pellicole eppure terribilmente impoverito da una generale mancanza d'idee e dall'impaccio che provoca a molti esplorare la disumanità dei campi di concentramento. Con la sua regia tutta camera a spalla, lunghi piani sequenza ripresi correndo alle spalle di un protagonista che si muove frenetico per il campo e tanti, soffocanti primi piani sul suo sguardo vuoto e vitreo, Nemes rende il film una sfida in quattro terzi, una maratona da cui si esce spossati fisicamente ancor prima che emotivamente.
Figlio di Saul é innanzitutto un resoconto duro e senza sconti per lo spettatore, capace di portare come nessun altro la logica industriale della catena di montaggio della morte, vista dalla prospettiva di un membro dei sonderkommando, i prigionieri che si sporcavano le mani al posto dei carnefici, supervisionando l'ingresso e l'uscita dalle camere a gas, mentendo all'ingresso delle docce, pulendo il sangue, bruciando i cadaveri.
Saul fa parte di questo terribile gruppo di prigionieri e ha già interiorizzato la missione disumanizzante della sua piccola casta: godere degli infinitesimali privilegi che comporta (primo tra tutti, non finire nelle docce), lavorare duro, tentare di sopravvivere il più possibile mentre si trascinano corpi e si pulisce il sangue. Sul volto di Géza Rohrig c'é tutta la durezza e la vacuità di chi punta diventare invisibile, fuori e dentro, schivando il sadismo delle SS e inanellando un giorno dietro l'altro, un carico di cadaveri dietro l'altro.
A un certo punto però qualcosa si spezza e Saul vede (o meglio, crede di vedere) l'amato figlio, scampato per caso alle docce. Il ragazzino morirà poco dopo, ma l'equilibrio indifferente di Saul é compromesso: mentre scendiamo nell'inferno del campo ci facciamo strada nella sua lucida follia, quella di voler seppellire il ragazzo secondo il rito ebraico, scovando tra i prigionieri un rabbino, occultandone il cadavere, seppellendolo, mentre i prigionieri organizzano l'ennesimo tentativo di fuga.