Con Il Gladiatore II Ridley Scott dà al pubblico esattamente ciò che vuole. La recensione

Grande, enorme, eccessivo in tutto: Ridley Scott ha capito che il pubblico di oggi vuole continui stimoli ipertrofici ed eccessivi e non una storia coerente e gli dà esattamente questo.

di Elisa Giudici

Il Gladiatore II non è all’altezza del film di cui vorrebbe essere epigono e sequel, ma il punto è che nemmeno ci prova: è un’altra la sua missione. Quella d’intrattenerci.

Il sequel non ha una sceneggiatura, una colonna sonora, una ricostruzione, un protagonista con la stessa magnitudo dell’originale; d’altronde non mira a segnare un’epoca. La pressione di bissare questo risultato la evita consapevolmente Ridley Scott, uno che a 87 anni d’età finalmente sembra aver capito alla perfezione i desiderata del pubblico, riuscendo a coniugarli con ciò che ha voglia di girare come regista.

Saranno due i suoi film che verranno probabilmente comparati a quest’opera. Il primo ovviamente è Il Gladiatore con Russell Crowe, la pellicola uscita giusto giusto nel 2000 che ha avuto un impatto culturale enorme a livello globale. Segnò l’inizio di un cambiamento di tendenze al cinema, o quantomeno sancì l’inizio della fine del cinema commerciale novecentesco. L’altro film che vale la pena di scomodare è The Martian, ovvero l’ultima pellicola di Scott a raccogliere un successo critico e commerciale. L’ultimo titolo pensato esplicitamente per divertire il pubblico attraverso performance godibili di grandi star, effetti speciali, azione e colpi di scena.

Gladiatore II ha imparato la lezione dei cavalieri e di Napoleone

I film successivi di Scott dicono molto di ciò che ha voglia di raccontarci e di girare. Nei suoi film più recenti - Tutti i soldi del mondo, House of Gucci, The Last Duel, Napoleon - c’è sempre uno scontro familiare che si fa politico e fratricida. Un padre che vuole uccidere i figli, o viceversa, due fronti divisi che prima o poi arrivano alla violenza. Scott ha voglia di uomini forti impegnati in grandi battaglie, scontri corpo a corpo, con spade, o a mani nude.

Battaglie la cui spettacolarità è la priorità numero uno, che piega e talvolta distrugge qualsiasi parvenza di ricostruzione storica. Lo si capiva moto bene in Napoleon, il suo peggiore film recente, in cui pur di girare una grande battaglia a cavallo Scott ricorreva a un attore del tutto inadatto (anagraficamente e non) a interpretare il grande generale francese. Lo si capiva ancor meglio in The Last Duel, il miglior film realizzato da Scott nell’ultimo decennio. Sceneggiatura solida e coerente al punto da essere tediosa, grandi battaglie che non fanno storcere troppo il naso agli storici, ottimi attori che gigioneggiano pochissimo. Vedi Adam Driver, che poi si è ritrovato a fare faccette per tutto House of Gucci. Il dimenticato The Last Duel sarebbe Il Gladiatore II, se quest’ultimo cercasse davvero di essere qualitativamente la versione migliore di sé.

Invece Il Gladiatore II ha imparato la lezione dei cavalieri e di Napoleone. Così come Coppola e il suo Megalopolis, nel bene e nel male anche l’anziano ma vitalissimo Scott è capace di cambiare, di adattarsi al presente, di trovare il modo di fare ciò che gli piace, come gli piace. Ha capito che per le sue battaglie e i suoi corpo a corpo, per i suoi maschi alpha e per i suoi (confusi) tentativi di ribellione allo status quo politico aveva bisogno di un franchise. Perciò ha rispolverato il suo titolo capace di innescare una nostalgia quasi palpabile, quello che ha intercettato ancor prima del celebre meme il fatto che la popolazione maschile pensa ogni giorno all’impero romano.

Il Gladiatore II attualizza alla perfezione Il Gladiatore

Il Gladiatore II attualizza alla perfezione Il Gladiatore, realizzando un grandissimo spettacolo. Il che non significa che sia un film bello o riuscito, ma che punta sempre al colpo di mano, alla spettacolarità, al divertimento.

Scott e chi lo assiste - a partire dal fidatissimo sceneggiatore David Scarpa - fanno esattamente questo, con un cinismo ammirabile.

Il primo grande problema da fronteggiare per il sequel è dove trovare oggi un nuovo Russell Crowe. La risposta è: da nessuna parte, perché non esistono più star che funzionano da sole, che attraggono le masse al cinema, che seducano davvero gli spettatori. Resiste qualche cariatide dei tempi novecenteschi, perché la popolazione che va in sala è quella che ci andava in quegli anni ed è ancora legata a quei nomi. Oggi un film commerciale lavora al plurale: ci sono pubblici, micronicchie, bolle. Quindi Il Gladiatore II dà a ciascuno la sua star ed è senza un vero e proprio protagonista.

Paul Mescal è la star dei film indie che punta a portare al cinema in pubblico che commenta i film art house e le cosce dei loro protagonisti su Twitter (che in sala, dati del botteghino alla mano, conta poco o niente), le ragazze orfane di Normal People, la fascia queer dai gusti ricercati. Si dimostra un attore di razza, che riesce a funzionare in un blockbuster in cui viene presentato come protagonista ma non lo è, mantenendo l’allure da attore con la a maiuscola e pronunciando con convinzione le battute elementari e reiterate che la sceneggiatura gli dà. Il suo Lucio Vero parla come un adolescente ribelle, non come un uomo sposato e poi vedovo animato da un’ira incontenibile e accecante. Mescal ci mette uno charme innegabile, dando ai vecchi fan di Crowe l’appiglio per una lamentela che non vedono l’ora di spendere. Quando indossa l’armatura di Massimo, è l’immagine più nitida del cambiamento della mascolinità sexy: è meno massiccio, più longilineo, i muscoli asciutti, l’agilità sostituisce la possenza.

Per chi ha nostalgia di quel tipo di mascolinità forte, solida, rassicurante Ridley Scott e David Scarpa propongono Pedro Pascal, altro prezzemolino promosso a Hollywood. Il suo è il ruolo più ingrato: risicato, tutto sommato inutile, una copia sciapa di Massimo, il protagonista del primo film, a cui non viene dato lo spazio per brillare. Un’altra fetta di pubblico la porta a casa però, così come il premio di consolazione di essere il Giusto di questa storia.

Poi c’è Denzel Washington, che ne uscirà trionfatore nelle recensioni, che ne acclameranno il grande villain carismatico che ruba la scena a tutti. Per forza: è l’attore a cui non solo viene affidato il personaggio migliore, ma anche il guardaroba più appariscente e ricercato, che per colori e tagli attira immediatamente lo sguardo. Il vero protagonista del film, quello veramente animato da un desiderio di vendetta inestinguibile, è lui, che di suo ci mette la capacità incredibile di rendere elegante e felino ciò che rischia spesso di diventare trash. Si muove come un pardo tra i troni degli altri accarezzandoli con desiderio, spunta alle spalle dei regnanti di turno, tira fuori armi letali dalle pieghe delle sue toghe d’alta sartoria, si professa umile servitore incapace di fare il senatore e poi umilia l’emiciclo col sorriso. Soprattutto Washington capisce il senso dell’operazione, la sfrutta al massimo e pure si diverte. Gli si perdona dunque un personaggio assolutamente anti-climatico, che si sgonfia sul finale, il cui machiavellico piano politico è assolutamente senza senso appena ci si sofferma a pensarci un po’ su.

A Joseph Quinn invece bisognerebbe dare un premio per come gli venga dato tutto l’opposto - un personaggio senza peso, con un look farsesco e pochissimo spazio - e ne cavi un risultato davvero dignitoso. Per dignità invece tacerò sul ritorno di Connie Nielsen, la cui Augusta Lucilla è impegnata in una serie di scelte imcomprensibili, d’accordo, ma il cui trucco e fisionomia non lascia spazio né a una credibilità storica né recitativa.

Incoerente, ma sempre al rilancio, uno scontro alla volta

Così come il cast anche la storia è ipertrofica, ricchissima di espedienti ma poverissima di coerenza interna. Le idee che mette in campo che ricicla a piena mani dal primo film, magari ribaltandole giusto per dare un certo dinamismo. Il primo Gladiatore si apriva con l’annientamento dell’ultima resistenza teutonica dal punto di vista di un generale romano. Il Gladiatore II si apre con la medesima scena ma dal punto di vista degli annientati. La storia inizia come quella di uno Spartaco ma si trasforma ben presto in una ribellione capitanata da un predestinato che è Nepobaby finale della secolare storia dell’impero romano.

Il film viene portato avanti da serie di convulse spinte politiche che mirano tutte ad annientare Roma dall’interno ma non riescono a mettersi d’accordo sul come e si combattono tra loro. A tratti si punta all’anarchia dal basso, alla ribellione del popolo, a tratti al reazionario più conservatore con i nobili saggi che guideranno le genti verso tempi migliori. Il punto non è davvero alcun tipo di messaggio che non sia uno slogan buon a riscaldare gli animi in sala, mai più profondo di un “forza e onore”. Così i passaggi migliori di scrittura (il prigioniero Mescal che vede la statua della Lupa e commenta sprezzante “un popolo allevato dagli animali” ribaltando la fondazione mitologica della città) vengono annullati dalle boutade in un film che non è mai un tutto coerente. Il Gladiatore ii è una sequela di picchi, di colpi, di rilanci. Questa sceneggiatura tiene insieme una serie di clip folgoranti degni degli sketch su dTikTok ricamandoci una parvenza di storia attorno, con slogan da ricamare su cappellini e twittare con l’hashtag. È un capolavoro nell’intercettare sentimenti di pancia, di cuore e di testa del presente.

Un presente in cui l’importante è rilanciare più in alto negli scontri nell’arena. Non come nel primo film per creare un pathos, l’attesa per il momento in cui finalmente Massimo potrà scontrarsi con il giovane viziato e arrogante simbolo di una giovane generazione che ha distrutto la Roma che lui ha costruito (e qui avete la risposta del perché, soprattutto per una certa generazione, questo film rimane un cult assoluto). Il Gladiatore II ragiona per prove alla Hunger Games, per clip sempre più audaci.

La prima volta che Mescal viene testato come combattente viene attaccato da una scimmia rasata, creata con una CGI così brutta che per un paio di secondi mi sono davvero interrogata sulla possibilità che Scott ci avesse messo pure gli animali zombie nell’antica Roma. L’animale azzanna il protagonista, che reagisce in maniera ancor più violenta e animalesca. Un collega mi ha poi commentato - e ha assolutamente ragione - che quella scimmia è il cattivo più convincente, il personaggio più coerente e il picco narrativo del film. Che però non si ferma lì e rilancia all’infinito in campo animale: prima con un rinoceronte cavalcato da un gladiatore star, poi con degli squali che sfrecciano velocissimi nel colosseo allagato, tutti figli di un’effettistica speciale tremenda. A proposito di sabbie e arena: com’è possibile che le scimmie bianche di John Carter, un film di dodici anni fa, facciano impallidire d’imbarazzo l’effettistica del kolossal Universal 2024? È possibile se il punto è avere un impatto forte, in positivo e in negativo. Quando finiscono gli animali, attacca il trauma: Lucio Vero è protagonista della stessa, traumatica esperienza di perdita non una, non due, tre volte. A quel punto volevo alzarmi in piedi e applaudire Scott, capace d’intercettare perfino quanto il cinema oggi sia una narrazione per reazione a un trauma, che spesso è volutamente esagerato, violentissimo, insuperabile.

Intercetta alla perfezione i sentimenti di pancia, di cuore e di testa del presente

Va molto meglio quando a fronteggiarsi sono uomini (veri), a mani nude, a petto nudo, con spade o scudi. Anche qui siamo lontani anni luce dallo Scott di 24 anni fa, che creava uno stile nuovo a colpi di rallenti e utilizzo innovativo della cinepresa, delle lenti e dell’otturatore. Visto oggi Il Gladiatore sembra la versione grezza di quello che sarebbe diventato lo standard delle scene d’azione su larga scala. Il Gladiatore II invece segue l’onda e la scia, ma lo fa con un regista che appunto, sia nell’arrembaggio iniziale sia tra la sabbia del Colosseo sa quello che fa. O tempora, o mores: ancora una volta si sfondano di molto le due ore, perché per dare qualcosa a tutti e tentare di spararla sempre più grossa senza avere davvero le idee chiare, servono un sacco di tempo e un sacco di soldi.

All’epoca dell’uscita del Gladiatore ero molto giovane e molto scettica. Rivisto adesso, subito dopo il suo sequel, mi è sembrato quasi Shakespeare. Non è così. Semplicemente si rivela essere un film con una produzione puntualissima, precursore di molti trend, molto centrato nella sua narrazione, nella sua mitologia. Il Gladiatore II è molto a fuoco nell’intercettare qualcosa d’impalpabile e attuale: lo spirito del tempo attuale. Non condivide la stessa ambizione del film che lo precede, ma non significa che sia un vuoto esercizio di stile. È così autorefenziale, meme di sé stesso, eccessivo in positivo e in negativo, oltre la narrazione e la coerenza da dimostrare di essere assolutamente al passo coi tempi. Non li anticipa, forse non li segnerà in maniera indelebile ma dimostra di averli capiti benissimo e di cavalcarli, senza farsi disarcionare.

Meno chiaro però è se sia un buon film da vedere in futuro, oltre che uno spettacolo da godersi nel qui e nell’ora della sala. Meno chiaro è cosa succeda dopo. Non lo sappiamo noi pubblico, così come non lo sa il film, indeciso su chi ne esca davvero vincitore dall’arena.

Un film che si apre profetizzando la caduta di Roma. Non è un problema mio, sembra dirci Scott, lasciandoci lì a fissare gli esiti di questa storia come i due eserciti che si preparavano a fronteggiarsi nel finale e si fissano all’ingresso della città, indecisi. Volevate il divertimento e io vi ho dato tutto il possibile, prendendomi le mie battaglie, i miei uomini veri che si affrontano a mani nude, perennemente alla ricerca di figure paterne surrogate: questo dice Scott. Alla soglia dei 90, si dimostra più contemporaneo della contemporaneità. Scusate se è poco.