Il gusto delle cose, recensione: un film grandioso, da assaporare fino all’ultimo boccone

I francesi danno una grande lezione d’amore, cucina ma soprattutto cinema con il gusto delle cose, in cui Trần Anh Hùng trova un modo diverso e più autentico di parlare di cibo e sentimenti

di Elisa Giudici

L’alta cucina, il buon mangiare e l’ossessione per l’eccellenza nella preparazione delle pietanze e nell’impiattamento degli stessi sono un tema ricorrente nella narrazione mediatica contemporanea. Ormai da più di un decennio siamo immersi dal racconto più o meno reale e realistico di cosa succede nelle cucine, nel dietro le quinte, tra i professionisti. Abbiamo interiorizzato il dogma dello stress, dei tempi risicati, dei volti sudati e contratti, degli chef che urlano ai sottoposti. Il politicamente corretto è rimasto sulle soglie della cucina, valicate da troupe di trasmissioni televisive, reality, da writing room di serie TV e sceneggiatori cinematografici.

La cucina come ricerca personale e spirituale

Di tutto questo Trn Anh Hùng non sembra consapevole o quantomeno ne è volutamente dimentico. Sette film all’attivo dal suo esordio negli anni ‘90, passaporto francese ma origini vietnamite, Il regista di Il gusto delle cose fa l’operazione forse più démodé possibile nel momento attuale. Prende un vecchio romanzo svizzero d’inizio Novecento ispirato a un leggendario gourmand francese e lo trasforma in un film in cui il cibo è passione (da qui il titolo originale La Passion de Dodin Bouffant), mai ossessione.

I volti dei protagonisti impegnati in lunghissime e complesse preparazioni culinarie non sono contorti dalla tensione e ricoperti dal sudore. Sono sereni, concentrati, impegnati a raggiungere un’eccellenza che è una ragione e regola di vita. C’è una fede, una mistica, una filosofia dietro la cucina di questo film che potrebbe parlare di arte, di letteratura, di musica: un mezzo creativo, artistico e culturale per cercare il senso della permanenza sulla terra. Dodin però è francese, quindi studia per ore i manuali di cucina, si confronta con gli altri amici inspirando il profumo delle quaglie appena uscite dal fuoco con un fazzoletto sopra la testa, per non farlo disperdere subito.

Le preparazioni sono lunghissime e complicate non per la voglia di arzigogolare ciò che potrebbe essere pià semplice e diretto, ma perché siamo nel 1885 e preparare un piatto significa innanzitutto andare alla pompa dell’acqua e portare un po’ di secchi in casa, accendere con le braci una gigantesca stufa che troneggia nella cucina in cui si svolge la prima parte del film. Cucina in cui Trn Anh Hùng si aggira senza un movimento di troppo, con lunghi piani sequenza gestiti con mano di chi sa quello come fa. Come Dodin, “il Napoleone della gastronomia”.

Passionale e appassionato: di cibo e di vita

Dodin (Benoît Magimel) è abbastanza abbiente a potersi permettere di dedicare la vita a cucina non per trarne un reddito ma per carpine il senso, chiuso nella sua casa di campagna frequentata da messi di principi, gourmand e sguattere. Disinteressato a ciò che usualmente le persone nella sua posizione perseguono con il denaro e il potere, si avvale dei servigi di una cuoca di nome Eugénie (Juliette Binoche), che non gli è inferiore per conoscenza e competenza. Eugénie è una sua dipendente, ma anche una sua pari e, occasionalmente, la sua amante. In questa relazione complessa e sfaccettata si consuma il conflitto che porta avanti la narrazione. Dodin desidera Eugénie come moglie, ma non vuole perderla come cuoca, lei vuole essere considerata per il suo talento, non per il suo essere la metà di lui.

Dodin e Eugénie vivono una doppia passione: per l’arte che li unisce, per l’attrazione che ciclicamente li avvicina anche carnalmente. Il film corona in un pranzo ricercatissimo che lui prepara per lei dopo aver cucinato per amici, ospiti importanti, personale di servizio. Un pranzo in cui si riversa la passione erotica e romantica, che corona in un amore che lui vorrebbe torrido e totalizzante come l’estate, ma lei da subito descrive come autunnale. Dentro questo film c’è una continua ricerca di un senso dell’esistenza, di una routine che permetta di raggiungere la felicità, ovvero “il desiderare ciò che già si ha”. Nel suo epilogo scrive pagine bellissime sia visivamente sia emotivamente.

Quella di Dodin è una lotta per l’eccellenza e il piacere che si scontra con l’immanenza ma che riesce a trovare un nuovo inizio, una serenità dolce amara proprio in come la sua vita rigorosamente scandita dalla sua passione abbia la meglio su ciò l’ha fatta improvvisamente deragliare. Non rassegnazione, ma consapevolezza.

Il tutto in scene che, senza essere una vuota estetizzazione, rasentano la bellezza avvolgente dei migliori quadri impressionisti, con una luce calda e ipnotica che inonda la cucina in cui il film si apre, affollato di pentole, fuochi e persone e si chiude, deserta, con il solo Dodin seduto su una seggiola che si lascia scaldare dal raggio di sole, riportare alla vita.

Juliette e Benoît, di nuovo insieme

Il grande regalo che i due intepreti protagonisti fanno a Trn Anh Hùng è quello di accettare di mettersi in gioco in modo molto più profondo e partecipato di due “semplici” star del cinema francese che si misurano con un ruolo di coppia. Magimel e Binoche infatti sono stati una coppia, hanno trascorso insieme parte della loro vita e hanno avuto una figlia insieme. Il loro amore è stato nascosto durante le riprese di “I figli del secolo”, dove è sbocciato. Qui invece, pur essendo concluso, genera un’intesa, una comprensione emozionale reciproca che si vede raramente in sala. Anche perché raramente un regista così dotato, con una storia così bella tra le mani ha anche a disposizione due protagonisti così giganteschi, così disposti a mettersi spiritualmente uno nelle mani dell’altro.