Il ritorno di Casanova, recensione: Gabriele Salvatores fa cilecca
Invecchiare non è semplice e nemmeno accettarlo: Il ritorno di Casanova però è più rassegnato di quel che dovrebbe, un lucido guscio dentro cui non ci sono veri sentimenti. La recensione.
Il ritorno di Casanova, recensione: Gabriele Salvatores fa cilecca
Invecchiare non è semplice e nemmeno accettarlo: Il ritorno di Casanova però è più rassegnato di quel che dovrebbe, un lucido guscio dentro cui non ci sono veri sentimenti. La recensione.
Leggi la recensione di Il ritorno di Casanova e scopri perché il film in cui Gabriele Salvatores riflette sulla vecchiaia fa cilecca.
Invecchiare non è facile, anzi: accettare di essere già vecchi è la parte più difficile. Non solo l’età presenta il conto, ma ci mettiamo troppo tempo a mettere a fuoco un cambiamento inevitabile, ma per questo non meno doloroso.
In Il ritorno di Casanova Salvatores affronta questo tema, usando come suo avatar Toni Servillo e Fabrizio Bentivoglio. Il primo è Leo Bernardi, un esimio maestro del cinema italiano che sta ultimando il suo ultimo film in vista della mostra del cinema di Venezia. La pellicola è un adattamento di Il ritorno di Casanova di Arthur Schnitzler che vede per protagonista proprio Bentivoglio nei panni del celebre seduttore veneziano, costretto a fare i conti con l’avanzare degli anni e impegnato in un’ultima, disperata, conquista amorosa.
Assalito da una depressione “da fine film”, svogliatissimo, Leo scarica la responsabilità di montare la pellicola al suo amico e fidato collaboratore di sempre (Natalino Balasso), trascorrendo le sue giornate nella casa iper-domotizzata in cui vive, struggendosi al ricordo di una bellissima contadina conosciuta sul set. Nonostante la notevole differenza d’età, lei vorrebbe fare sul serio con Leo; è lui a fuggire.
Soprassedendo su quanto questa trama racconta patemi personali già raccontati in lungo e in largo dal cinema, a mancare ne Il ritorno di Casanova è proprio Salvatores. Dentro questo datato racconto della vecchiaia infatti non c’è sentimento, non c’è autobiografia, non c’è nulla di personale.
Peggio: nei suoi inserti comici, è una parodia spuntata, in quelli drammatici propone un modo di guardare al mondo (dentro e fuori il cinema) vecchio, vecchissimo, superato.
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Da Arthur Schnitzler a Gabriele Salvatores
Salvatores qui tira un parallelo evidente da Casanova e Bernardi. Entrambi sono esimi maestri che si rivelano essere i soliti stronzi, per citare il noto adagio coniato da Arbasino. Per uno Venezia è la patria a cui tornare, per l’altro è la Mostra del cinema da snobbare, sperando sotto sotto che poi arrivi il Leone d’Oro, una seconda giovinezza artistica se non fisica.
Il cortocircuito avviene proprio alla fine del montaggio del film dentro il film. Mentre nel presente assistiamo alle contraddizioni che animano il regista Leo con scene girate con un modernissimo bianco e nero tirato a lucido, pian piano ci viene mostrato il montato messo insieme dal povero Balasso mentre Servillo lo tratta come una pezza da piedi, lasciandogli la responsabilità di tirare fuori un film all’ultimo minuto da un pugno di scene.
Quando il montaggio è concluso, dopo aver visto l’ultima scena di Il ritorno di Casanova, Leo ha l’unico momento di amicizia e fraternità con quello che tratta alla stregua di un servitore. Guarda l’amico montatore e si complimenta con lui per aver ultimato il film. Tra i due non c’è traccia d’ironia, eppure quello che abbiamo appena visto è un meta-filmaccio, quasi una parodia di certi pretenziosi film autoriali d’altri tempi.
C’è persino un doppio full frontal tra due interpreti impegnati in duello mortale che - leziosamente - vuole ricordarci la differenza tra un corpo giovane e sano e uno ormai avvizzito e anziano.
L’esito del duello è inevitabile in una pellicola che sa di vecchio dall’inizio alla fine. Per parafrasare Paolo Sorrentino, Il ritorno di Casanova può piacere giusto a chi ama “l’odore delle case dei vecchi”. Tutto in questo film è vetusto, peggio, passatista, a partire proprio dal racconto di cosa sia la vecchiaia per Leo e, per estensione, per Salvatores.
La sceneggiatura del film ci racconta che Bernardi è assillato da una depressione che non sembra figlia della sua età,quanto del suo animo d’artista. È un anziano facoltoso, stimato, in buona salute, la cui vecchiaia si manifesta solo con una ridotta autonomia tra una pausa pipì e l’altra.
Nel suo letto si rotolano giovani blogger cinematografiche, il suo incontro con una bella contadina si risolve in una passione profondissima, soprattutto per lei. Bernardi non è un vecchio vero, è l’idealizzazione di un vecchio, che soffre per un qualcosa che, nei fatti, non si manifesta mai.
Non c’è l’imbarazzo di un corpo che ti tradisce (anzi, viene spesso allusa una prestanza sessuale giovanile), non c’è la crudeltà della malattia, non c’è nemmeno il senso del ridicolo di chi non capisce di aver fatto il suo tempo. Bernardi si strugge per una vecchiaia che, nei fatti, non ha alcuna conseguenza.
Il film non vuole né giudicarlo nel suo vanesio egoismo, né evidenziarne il ridicolo. Da qui torniamo a il film nel film: un dramma in costume che alterna scene riuscite ma convenzionalissime a passaggi imbarazzanti (il duello tra uomini nudi). Se alla fine del montaggio Leo e il suo montatore fossero vagamente consapevoli di quanto il film sia polveroso e inutile, se a Venezia venisse fischiato, Il ritorno di Casanova sarebbe un film con un senso.
Sembra voler invece rassicurare gli uomini dell’età di Leo e del regista: siete ancora capaci, siete ancora rilevanti, certo i giovani si fanno largo ma il vostro valore è ancora lì, le donne (anche le giovani donne) vi desiderano ancora.
Cosa non funziona in Il ritorno di Casanova
A non funzionare in questo film quindi sono principalmente due elementi, entrambi riconducibili alla sceneggiatura. Il primo è l’indulgenza con cui si affronta l’intera questione della vecchiaia. Il secondo è la vaghezza del discorso a cui si unisce l’ironia smorzata, anzi, spuntata della pellicola.
Leo Bernardi è il personaggio più sorrentiniano mai visto al cinema in Italia, esclusi i protagonisti dei film di Sorrentino stesso. Il fatto che a interpretarlo ci sia Toni Servillo rafforza ulteriormente quest’impressione.
Malinconico, acuto nei giudizi ma estremamente indulgente verso sé stesso, Leo Bernardi è un Jep Gambardella che trattiene ancora qualche illusione. È difficile sentirci dentro Gabriele Salvatores, che nelle sue prove migliori ha raccontato un altro carattere e un altro cinema.
La casa tecnologica e fredda che piange per la sua tristezza del suo padrone è lontana anni luce da Nirvana, affiancata dalla bellissima giovane che fa il bagno alle terme insieme all’anziano amante: sembra di vedere Youth, ovvero un film su temi simili girato da un Sorrentino non nella sua forma migliore.
Se fosse una parodia sarebbe stuzzicante ma, come già spiegato, questo film si prende sul serio proprio e soprattutto quando a rigor di logica dovrebbe ironizzare. A infastidire è anche la vaghezza delle sue riflessioni.
Nella pellicola per esempio Bernardi è irritato da un giovane rivale, un regista al suo secondo film che ha “vagiti di talento” e che dovrebbe essere il concorrente del maestro a Venezia. Salvatores vuole farci una tirata sulla direzione che il cinema italiano sta prendendo? Benissimo: sia però più specifico di così.
Ancor più vaga e francamente intollerabile è la componente femminile del film, a metà tra il stilnovismo e una fantasia erotica da film da seconda serata. I personaggi femminili di questo film sarebbero incommentabili se fossero persone vere. Tutte le donne invece sono proiezioni del desiderio maschile, che siano vecchie o giovani, ostili o dalla parte del regista.
Prendiamo Sara Serraiocco, che interpreta la bellissima contadina che s’invaghisce di Leonardo. Pixie cut, salopette di jeans immacolata, guida un trattore nel bel mezzo della campagna veneta. L’impressione è che profumi di rose anche quando ha un braccio infilato nel posteriore di una vacca che sta aiutando a partorire.
Non è una donna vera e non perché sia così miracolosamente linda mentre si prende cura della sua azienda agricola. Di lei non sappiamo nulla a parte ****la sua incrollabile attrazione per Leo. È una sirena che emerge dall’acqua del Lidosenza fare rumore, recando nel suo grembo una promessa d’immortalità per il regista. È una scena ridicola, ma quella più riuscita che la riguarda, quella che esprime davvero il suo ruolo del film. Ha più spessore caratteriale la bella e dolce Bianca Panconi che il Casanova del film vuole sedurre con l’inganno.
Il resto poi è lindo, pulito e lucente come la casa di Leo: una bella regia che guarda a Fellini (e a chi altri se non all’erede contemporaneo Sorrentino, di nuovo?), un montaggio dignitoso, musiche ben orchestrate, interpreti che si prestano a pronunciare battute tragicomiche credendoci davvero.
Quando però ci si rende conto che la realtà in bianco e nero di Il ritorno di Casanova è un sogno, molto più del film che non esiste dentro al film, viene da chiedersi a chi giova una pellicola che risulta fredda, impersonale, senza niente di personale da dire su un tema che si preannuncia così intimo come la vecchiaia.
Voto
Redazione
Il ritorno di Casanova, recensione: Gabriele Salvatores fa cilecca
Una riflessione sulla vecchiaia impersonale in un film che sa di vecchio: Gabriele Salvatores confeziona un film bello a vedersi, ma senz'anima.